Agorà

Franco Cardini. La mite Griselda e la Sindone

Franco Cardini sabato 28 agosto 2010
Fu nella biblioteca di Chambéry, che il giovane filologo Karl Schandmauler fece la scoperta del secolo: l’autografo, di pugno di Giovanni Boccaccio, della stesura originale dell’ultima novella della Decima Giornata del Decameron, quella di Griselda. Che si trattasse di un autentico autografo boccacciano, era fuor di  dubbio: glielo confermarono eminenti studiosi. Il punto era che il racconto era molto diverso da quello da sempre conosciuto: ed era una diversità sconcertante.La prima parte scorreva quasi conforme al testo noto. Gualtieri marchese di Saluzzo, scapolaccio impenitente, si era lasciato convincere a prendersi in casa una bella contadina di nome Griselda, l’aveva sposata con scandalo dei cortigiani e le aveva fatto fare due bei figli. Poi, forse per un gioco crudele forse perché pentito per aver ceduto al capriccio di un istante o a una cotta passeggera, aveva cominciato ad angariare in ogni modo la sua povera fedele compagna fino a farle credere di aver ucciso, per suo puro capriccio, i figli bastardi che essa gli aveva partorito. Griselda aveva sopportato tutto con pazienza, con umiltà, con rassegnazione, con fedeltà al suo signore e sposo.Arrivata la narrazione questo punto, però, il testo di Chambéry procedeva in una prosa senza dubbio boccacciana, e perfino più bella della versione a tutti nota: ma la trama era irriconoscibile. Nel testo ufficiale troviamo un epilogo che ha indotto molti critici a ritenere che la vera natura di quel capolavoro sia in realtà un’apologia iniziatica delle virtù cristiane.Sappiamo che, nella seconda parte dell’esistenza, Giovanni Boccaccio divenne un personaggio molto pio: si era convertito, o aveva ricevuto magari qualche intimidazione di carattere inquisitoriale? Non lo sapremo mai. Ma il manoscritto scoperto a Chambéry ci obbliga addirittura a  pensare che, in anni più verdi, egli avesse coltivato addirittura qualche segreta propensione ereticale.In effetti, la primitiva versione della novella di Griselda ci mette dinanzi a una serie di episodi evidentemente poi scomparsi dal testo dell’opera perché ripudiati dall’autore. Ed ecco qua.La vita scorreva lenta e, per Griselda, triste nel castello di Saluzzo: Gualtieri viveva in mezzo alle cacce, ai banchetti e ai tornei e la obbligava a servirlo non come una nobile consorte, ma come un’umile ancella. Non era infrequente che le facesse trovare il letto nuziale occupato da una delle sue amanti: in quei casi la marchesa era costretta a passar la notte negli alloggiamenti della servitù, tra i sorrisetti di scherno delle fantesche molte delle quali – le più giovani e piacenti – avevano a loro volta tutte avuto il privilegio di assaggiare gli attributi virili del consorte. Finché, un giorno, un Dio pietoso o un arguto demonio disposero un colpo di scena.Giunse difatti allo splendido castello marchionale di Saluzzo un giovane cavaliere, Goffredo di Charny, reduce da un misterioso viaggio in Oriente: recava con sé un piccolo, prezioso e misterioso cofano che conteneva, a suo dire, il tesoro più prezioso della terra. Gualtieri lo ospitò magnificamente, predisponendo per lui banchetti, cacce, giochi cortesi e spettacoli di trovatori e di giullari: e pose a sua completa disposizione – calcando con sarcasmo la voce sull’aggettivo «completa» – una dama non più giovanissima eppure di ancor meravigliosa bellezza che gli presentò come la più avvenente, esperta e raffinata tra le sue ancelle. Griselda seppe così che il marchese la stava prostituendo al nobile ospite, lasciando a lei la scelta: se avesse ceduto allo Charny, egli l’avrebbe poi accusata di adulterio e forse addirittura fatta morire in quanto sposa infedele; se gli avesse resistito, l’avrebbe punita con un durissimo e perpetuo carcere in quanto serva disubbidiente.Ma il nobile signore non era altrettanto "cortese": poco aveva appreso dalle teorie dell’amore meditate da Andrea Cappellano, dai trovatori di Provenza, dai cantori fiorentini dl Dolcestilnovo. Ignorava che al cor gentil ripara sempre amore e che amore a nullo amato amar perdona. S’immaginava uno Charny cavaliere sensuale e arrogante come lui e una Griselda lacerata tra la paura dell’adulterio e quella della disobbedienza, entrambi esiti per lei definitivamente rovinosi. Invece, Goffredo univa a una straordinaria bellezza doti di gentilezza e di raffinatezza che avrebbero incantato qualunque donna; e la bellezza di Griselda, alla quale l’incipiente maturità conferiva un fascino sottilmente dolce, conquistò perdutamente il giovane ospite.La sera del banchetto di commiato, lo Charny avvertì Gualtieri: al mattino seguente, all’alba, egli sarebbe uscito con il suo piccolo seguito dalla cinta del castello. Dispensava il suo anfitrione dal destarsi per salutarlo: si sarebbero detti addio là, dinanzi alla tavola ancor imbandita. Si scambiarono doni pregiati, si abbracciarono e ciascuno si diresse verso le rispettive stanze: Gualtieri cingendo i fianchi di una nobile e bella dama consorte di un suo vassallo in quel momento in viaggio in lontane contrade, Goffredo tenendo castamente ma dolcemente per mano una Griselda arrossita e reticente. Ghignava, il perfido Gualtieri, dinanzi all’espressione imbarazzata e smarrita della consorte.Ma non aveva alcun motivo di ridere. Al mattino, dopo aver gustato al risveglio il corpo dell’amante – l’amore all’alba, quando lei è ancor assonnata, è più dolce –, si alzò in fretta e corse verso gli appartamenti ch’erano stati occupati da Goffredo per sottoporre Griselda a un interrogatorio e stabilire se fosse una sposa adultera o una serva infedele. La dama aveva scelto l’adulterio: ma in modo ben più decisivo e profondo di quanto il marchese si aspettasse. I due, profondamente innamorati, avevano capito che una notte sola non sarebbe bastata: che tutte le notti del mondo non sarebbero state sufficienti. Mentre il sole sorgeva illuminando i monti saluzzesi, Goffredo era uscito dal castello stringendo al petto il suo prezioso cofanetto ma portando anche con sé, in sella al suo destriero, la marchesa Griselda.Il loro amore fu perfetto, per il resto dei loro giorni: anche se non consacrato da nozze né allietato da nuova prole. Griselda avrebbe ignorato per sempre che i due figli avuti da Gualtieri erano vivi e che il marito si era astenuto almeno da quell’orribile crimine. Quello sarebbe stato il suo inconfortabile dolore. Ma Goffredo, che non fece nulla per recidere il precedente vincolo matrimoniale della sua amata, la introdusse in cambio non solo nella camera delle più perfette e indicibili dolcezze dell’amore carnale, ma anche nel Tempio delle più recondite Verità divine. C’era nel suo castello una piccola cappella dalle preziose vetrate policrome e al centro della quale, su un altare d’avorio e d’oro, ogni domenica si stendeva e si adorava il contenuto del famoso cofano: un antico telo di lino che recava misteriosamente impressa l’immagine di un Uomo nudo e barbuto, composto nel sonno della morte. Una morte durata tre soli giorni. Goffredo di Charny, erede e omonimo d’un altissimo dignitario templare fatto bruciare sul rogo nel 1314 da re Filippo IV di Francia insieme con il Maestro Giacomo di Molay, aveva ereditato dal suo congiunto la custodia della Sindone.Il Boccaccio aveva evidentemente conosciuto Goffredo di Charny – un personaggio storico reale, a differenza di Griselda di Saluzzo –, che sarebbe caduto il 19 settembre del 1356 combattendo nella battaglia di Poitiers a fianco del re di Francia Giovanni il Buono, contro gli inglesi. Il suo nobile amico gli aveva evidentemente mostrato, proprio come si esprimeva la copia seicentesca di un’epistola evidentemente anch’essa autentica, «la vera immagine di Nostro Signore». Ma quegli accenni a un amore fuori del matrimonio e non confortato dalla nascita dei figli facevano quasi sospettare, sia nello Charny sia nel Boccaccio, delle simpatie per il catarismo. Da esse il poeta dovette far ben presto ammenda, riscrivendo la novella di Griselda nei termini ortodossi ed edificanti nei quali noi la conosciamo. Karl Schandmauler, con la sua scoperta, ci ha restituito l’inedita immagine di un giovane Boccaccio non già scapestrato e dissacrante scrittore di liete novelle erotiche, bensì adepto d’una fede religiosa eterodossa. Così è, se vi pare: a meno che lo studioso tedesco non si sia, in omaggio al suo cognome, comportato da Malalingua.