Agorà

Intervista. Graeber: burocrazia, la regola dei più forti

Elena Molinari mercoledì 18 novembre 2015
Viviamo nell’era della burocratizzazione totale, così narcotizzati (anzi, quasi confortati) dalla proliferazione selvaggia di regole che non ci accorgiamo che la burocrazia è «uno strumento attraverso il quali l’immaginazione umana è schiacciata e frantumata». Le noie dei formulari da compilare e dei certificati da far timbrare non sembrerebbero, a prima vista, una ragione sufficiente per fare una rivoluzione. Ma David Graeber non è d’accordo. Graeber, che è stato chiamato «il miglior antropologo della sua generazione in qualsiasi parte del mondo», è un attivista, un anarchico, e l’autore dello slogan del movimento Occupy Wall Street, «siamo il 99%». Dopo aver dettagliato in un volume tutti i mali del debito, Graeber vuole ora aprire gli occhi dei cittadini occidentali sugli effetti della burocrazia e sulle complicità della destra come della sinistra nell’alimentarla, invitandoli a non credere alla «narrativa corrente» che le regole per accedere ai servizi pubblici, alle università, alla sanità o a un lavoro sono trasparenti ed egalitarie. Nel suo libro, L’utopia delle regole: sulla tecnologia, la stupidità e le gioie segrete della burocrazia ( The Utopia of Rules: On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy, edito da Melville House), Graeber sostiene infatti che la burocrazia è più figlia del mercato che dello Stato, che la tecnologia l’ha amplificata e non semplificata e che l’americano medio si illude se crede che conoscere le regole e applicarle fedelmente lo porterà a ottenere risultati. Professor Graeber, lei scrive che il tempo che un americano passa impantanato nella burocrazia è aumentato negli ultimi cent’anni, nonostante l’espansione della tecnologia. Come è successo? «Oggi invece di compilare moduli su carta lo facciamo online o rimaniamo al telefono a schiacciare bottoni seguendo gli ordini di un messaggio registrato. Ci avevano detto che pri- vatizzare e applicare regole di mercato al settore pubblico, con l’aiuto della tecnologia, avrebbe fatto scomparire la burocrazia. Invece è nato un ibrido mostruoso, una fusione da incubo dei peggiori elementi dello statalismo con i peggiori elementi del capitalismo». Eppure oggi non si parla di burocrazia come si faceva quarant’anni fa. «È scomparso lo spirito di ribellione degli anni 60 e 70 che considerava la burocrazia come un nemico da sconfiggere, la via sicura verso un’esistenza grigia e controllata da una rete incomprensibile di norme. La sinistra ha perso la sua vocazione antiburocratica ed è rimasta la destra che vuole solo abolire tutto quello che è Stato». Per questo ha scritto L’utopia delle regole? «Il libro è nato in parte dalla mia frustrazione nei confronti dell’accettata equivalenza fra “burocrate” e “governo” che è storicamente errata. Nel XIX secolo si è diffusa l’idea del mercato come un’espressione della libertà umana. Così siamo gradualmente passati da un sistema di caste a una società dove le relazioni sono dei contratti, quindi maggiormente burocratica. Resiste però la convinzione che le forze di mercato possono liberare gli individui da regole opprimenti e permettere loro di agire senza costrizioni inutili». Non è che così? «Il mercato è il prodotto di scelte e investimenti governativi. E la burocrazia nel privato oggi è peggiore di quella nell’amministrazione pubanzitutto blica. È stato il mondo del capitalismo a rendere gli Stati Uniti un Paese altamente burocratico: un elemento che sfugge agli osservatori stranieri. Il management aziendale di medio livello passa il suo tempo a compilare relazioni. Ma è la fusione di pubblico e privato che, grazie al sistema di lobby in Congresso, è ormai completa in America, la vera responsabile di aver riempito le giornate degli americani di percorsi a ostacoli. Il privato non vuole eliminare la burocrazia, ma piegarla ai suoi bisogni». Può fare un esempio? «Gli Stati Uniti sono diventati una società rigida nel bisogno di credenziali. Quasi tutte le occupazioni che venivano considerate delle arti o dei mestieri e che si apprendono con la pratica ora richiedono uno specifico diploma. Prima l’accesso era garantito da connessioni familiari, quindi non era equo. Ma ora ottenere quei titoli lascia i figli delle classi lavoratrice e media oberati di debiti, schiavi del sistema della finanza, quindi sempre meno liberi ». Allora qual è il rischio maggiore della burocrazia, oltre al fatto che è una seccatura? «Crea l’illusione che le regole siano universali. In realtà sono applicate in modo da dare un vantaggio per chi le ha create. La burocratizzazione della vita quotidiana è l’imposizione di regole impersonali e spesso arbitrarie, rese effettive dalla minaccia dell’uso della forza, che sia il licenziamento, o il ricorso al sistema giudiziario o alla polizia. E poiché la burocrazia non tollera le persone ai margini, le più creative, quelle che la sfidano, con il suo sistema le soffoca».