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IDEE. «Grado zero», le tre volte del Giappone

Maurizio Cecchetti venerdì 25 marzo 2011
Ogni tanto la natura ci ricorda che la tabula rasa è una possibilità compresa nelle leggi del creato. Perché c’è qualcosa e non il nulla? La domanda che i metafisici si rifanno ogni volta che tentano di dare ragione delle leggi di questo mondo (al prima e al poi di questo mondo) è diventata, rovesciando i presupposti, la stessa che l’uomo moderno si è posto pensando che il «grado zero» sia una delle possibilità di cui dispone in ragione dell’aumento incredibile di mezzi tecnici e della liberazione della propria volontà di potenza. Di fronte a eventi «fuori scala», come lo tsunami in Giappone, ci si chiede: ma Dio dov’era? La domanda, che riporta d’attualità la teodicea, non deve farci perdere di vista che esiste un trait-d’union tra rivolgimenti catastrofici della natura e catastrofi prodotte, appunto, dall’agire umano. L’uomo – che è quanto di meno naturale ci sia sulla faccia della terra, l’etica, infatti, è il tentativo di correggere quella forza che altrimenti equivarrebbe alla dynamis cieca della natura – quando dispone di un enorme potere è tentato, prima o poi, di usarlo per cancellare ciò che gli impedisce di arrivare allo scopo. Come la natura ha nella sua possibilità lo tsunami, così il potere che l’uomo esercita sulle cose e sugli altri (avendone disponibilità) deve mettere in conto anche l’uso della bomba nucleare, e ogni altra forma di annientamento che comporta la cancellazione dell’ostacolo. È la questione stessa della libertà. La tabula rasa è il modello che l’uomo moderno prende dalla natura. Azzera la realtà fisica, ma può essere anche un azzeramento dei valori della tradizione, o un sovvertimento sociale e politico come nel totalitarismo. La prima volta che l’espressione «Ground Zero» finì sui giornali con grande risalto, non fu come si pensa, quando crollarono le due torri di New York l’11 settembre 2001. Accadde nell’agosto 1945, quando due B-29 sganciarono a pochi giorni l’una dall’altra due bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima. La foto che pubblichiamo in questa pagina mostra la tabula rasa prodotta dall’esplosione che in pochi minuti distrusse Nagasaki e uccise migliaia di persone (la croce in primo piano diventa il segno luttuoso di questo illimitato cimitero). Ma non è di simboli che vogliamo parlare, bensì di come il «grado zero» sia una delle forme d’esperienza dell’uomo moderno. L’ottimismo americano si manifestò anche quella volta nell’allegria un po’ macabra dei nomi: la bomba di Hiroshima era stata battezzata «Little boy» (ragazzino) e quella di Nagasaki «Fat man» (uomo grasso). Ci vuole una superficialità senza complessi per imporre nomi così «ironici» a ordigni come quelli. Uno spirito un po’ da film, dove quel che accade, accade solo nell’immaginazione. Anche la natura non si fa problemi, le sue leggi fisiche prevedono il terremoto e lo tsunami, e l’uomo non può accusarla di uso sproporzionato dei propri mezzi. La natura matrigna è un topos letterario e filosofico proprio perché afferma che l’uomo è anche natura, ma non solo. Il Giappone moderno ha una certa familiarità col «grado zero»: nel 1923 un forte terremoto rase al suolo Tokyo. Uno dei pochi edifici rimasti in piedi fu l’Hotel imperiale di Frank Lloyd Wright, che nel 1915 aveva aperto il proprio studio nella capitale giapponese. Wright l’aveva costruito inventando un sistema di fondazioni «mobili» capace di reagire alle spinte prodotte dal terremoto. L’impresa durò sei anni e Wright nel 1922 aveva deciso di rientrare in America: appena in tempo per evitare il terremoto. Dopo il sisma il grande architetto pensava che l’Hotel imperiale fosse caduto come gran parte della città, invece dopo un paio di giorni ricevette dall’imperatore un telegramma nel quale il sovrano giapponese lo ringraziava per aver costruito un’architettura così mirabile da resistere a quel tremendo cataclisma. In meno di un secolo, dunque, il Giappone ha conosciuto per tre volte il «Ground Zero». Storicamente, la cultura nipponica ci ha insegnato a governare il vuoto (basti pensare quanto le deve l’architettura moderna); e il simbolo di questa cultura è il giardino dove si ricrea l’ordine della natura secondo un grado di perfezione che contempla più vuoti che pieni. Ma in Occidente la ricreazione della natura passa piuttosto dalla demolizione (oggi esiste un’ingegneria spettacolare delle demolizioni che richiama le folle). Nell’Ottocento vennero rase al suolo intere zone di città europee: basti ricordare i quartieri medievali di Parigi col piano Haussmann nel 1850-70, il cui fine era rendere la città più controllabile dall’esercito in caso di rivolte popolari; nel Novecento, dopo che i tedeschi avevano abbattuto interi quartieri di Varsavia, i sovietici ne ricostruirono gran parte esattamente com’erano (in questo caso alla cancellazione fisica seguì la cancellazione della storia: come quando, alla caduta di un dittatore, vengono rimossi dalle piazze i monumenti che lo celebravano). Dal terremoto di Lisbona l’Occidente ha ragionato sulla tabula rasa chiamando in causa Dio (per peccato di omissione o per trovare in quel fatto la prova che Dio non esiste e se esiste ha poco a che fare con l’uomo). Ma la tabula rasa ha un significato più specifico della prova di Dio: è la metafora della ragione moderna. La tentazione di un nuovo inizio, un altro Big Bang, una palingenesi tipica della cecità rivoluzionaria, che non è molto diversa dalla cecità del sangue. Ma l’uomo, a differenza della natura, non può ignorare gli effetti che producono le sue azioni. Anche quando sono compiute «a fin di bene».