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Scenari. Gorizia capitale della cultura 2025, nel segno della riconciliazione

Gianpaolo Romanato martedì 12 gennaio 2021

Veduta panoramica di Gorizia, piazza Vittoria con la chiesa di Sant'Ignazio

Oggi Gorizia è una piccola città di provincia, ancora piagata dalle ferite della storia. Con la gemella slovena Nova Gorica non arriva a 50.000 abitanti. Ma la Commissione Europea che l’ha designata capitale europea della cultura per l’anno 2025 non poteva compiere scelta più felice.

Nel secolo scorso, infatti, Gorizia è stata colpita a morte due volte. Dopo la Prima guerra mondiale, quando divenne italiana e perdette improvvisamente quelle caratteristiche interetniche e interlinguistiche che l’avevano caratterizzata come una delle più tipiche espressioni del mondo mitteleuropeo; dopo il 1947, quando la cortina di ferro la tagliò letteralmente a metà. Un pezzo di città andò alla Jugoslavia e un pezzo rimase in Italia.

Fu una follia della guerra fredda simboleggiata dall’incredibile destino della celebre stazione Transalpina, sulla linea ferroviaria che collegava il litorale con Vienna e il centro-Europa. Nel 1906 era sceso a Gorizia a inaugurarla addirittura Francesco Ferdinando, l’erede al trono che sarà poi assassinato a Sarajevo. La stazione finì in Jugoslavia, la linea di confine passò in mezzo alla piazza antistante, divenendo poi uno sbarramento invalicabile di cemento e filo spinato, e l’albergo alla Transalpina, che stava dall’altra parte del piazzale, rimase in Italia.

Lo scempio durò sessant’anni e finì definitivamente solo nel 2007, quando l’ingresso della Slovenia nell’area Schengen permise che la piazza della Transalpina smettesse di essere innaturale motivo di divisione e tornasse ad essere punto di incontro. Non a caso è in questa piazza - un luogo che l’Europa dovrebbe elevare a simbolo di un passato che speriamo non debba ripetersi - che i cittadini di Gorizia-Nova Gorica hanno festeggiato prima di Natale la designazione della loro città a capitale della cultura.


Passata all’Italia dopo il 1918, divisa nel 1947, tornata simbolicamente
“una” solo nel 2007 quando la Slovenia ha aderito a Shengen,
è simbolo della stoltezza di guerre e ideologie


Gorizia è stata sempre un luogo conteso. Quando declinò il Patriarcato di Aquileia, l’Austria e Venezia si disputarono a lungo l’antica contea di Gorizia, poi finita sotto il controllo di Vienna a partire dal 1509. Ma gli Asburgo conoscevano bene il carattere misto di questa città, dove italiani e tedeschi si fondevano e parlavano indifferentemente le due lingue (non senza aggiunte di friulano) e non ne forzarono mai la natura, neppure quando la crescita della componente slovena, trasformò Gorizia in una città trietnica. O addirittura quadrietnica, se consideriamo la minoranza ebraica, presente dai tempi più lontani.

Rinchiusi nel ghetto nel 1698, emancipati definitivamente nel breve periodo francese, gli ebrei goriziani, mai particolarmente numerosi, furono però una delle componenti più attive del tessuto cittadino, con personaggi di grande spessore: da Graziadio Isaia Ascoli, fondatore in Italia della scienza linguistica, a Carlo Michelstaedter (1887-1910), il filosofo che si suicidò a 23 anni nella soffitta della sua casa su piazza della Vittoria.

Purtroppo rimane poco di questa Gorizia ebraica, tolta la sinagoga di rito askenazita. La comunità è stata falcidiata dalle persecuzioni del periodo bellico e poi la sua stessa memoria è stata divisa dalla guerra fredda. Il cimitero di Valdirose, dove sono sepolti tutti gli ebrei goriziani, compreso Michelstaedter, è finito in Jugoslavia, poche centinaia di metri oltre il confine, rimanendo per molti anni in condizioni di totale abbandono, imprigionato fra strade asfaltate e cavalcavia, deturpato anche dalla presenza di una sala giochi. A cercarlo si faticava non poco a trovare l’ingresso fra le sterpaglie.

Solo negli anni più recenti sono stati compiuti lavori (doverosi) per ripristinare questo luogo, altamente significativo anche per gli italiani, dato che in una città dove l’irredentismo fu sempre molto tiepido, diversamente da Trieste, gli ebrei rappresentarono la componente filoitaliana più accesa. Ascoli attese il compimento dell’unificazione per trasferirsi in Italia e dal 1861 visse sempre a Milano.

Una città tollerante, colta, pacata, dove il più umile dei suoi abitanti parlava disinvoltamente tre lingue. Questa è sempre stata Gorizia, nota anche per il benevolo clima mediterraneo, ben diverso da quello di Vienna o di Praga o di Budapest. In questa Nizza dell’Impero, come veniva chiamata, ben fornita di palazzi nobiliari accoglienti e ospitali, si rifugiarono molti personaggi illustri, compreso Francesco Ferdinando, per recuperare la salute. I Borbone di Francia ripararono qui dopo la rivoluzione di luglio del 1830 e molti sono sepolti nel convento francescano di Castagnovizza, in Slovenia, pochi metri oltre la linea di confine. Poi le vicende novecentesche l’hanno privata del territorio che storicamente era suo, riducendola a una specie di piccola terra di nessuno.

I continui riadattamenti resi necessari dalle vicende politiche hanno ristretto entro limiti minuscoli anche l’arcidiocesi, un tempo vastissima e di gran peso nell’amministrazione imperiale, come testimonia l’imponente edificio del seminario, oggi sede dell’università, fucina fino al 1918 di ottimi vescovi. Il movimento cattolico isontino fu di netta impronta italiana, ma su posizioni generalmente lealiste rispetto al governo viennese. I suoi esponenti più noti, don Luigi Faidutti e Giuseppe Bugatto, che si erano strenuamente battuti nel Reichstag per l’istituzione dell’università italiana a Trieste, rimasero fedeli all’Austria - oggi lo si può ricordare senza che questo torni a loro disdoro - e dopo la guerra non poterono più rimettere piede in città, trovando entrambi rifugio a Roma, il primo cooptato nel corpo diplomatico della Santa Sede, il secondo assunto con un impiego in Vaticano.

L’irruzione delle ideologie politiche, prima il nazionalismo, poi il fascismo e dopo il comunismo, ha fatto tabula rasa di tutto questo. Nel 1916 la conquista di Gorizia, poi perduta e poi riconquistata, costò decine di migliaia di morti - molti riposano nell’ossario di Oslavia, sulle pendici del Collio - per cui la città, nell’immagine pubblica, si polarizzò attorno a sentimenti più estremi: divenne la 'santa Gorizia' degli interventisti più accesi e la 'città maledetta' di tutti gli antimilitaristi.

Nel periodo interbellico, fino al trattato di pace del 1947 che stabilì la divisione dell’abitato (Nova Gorica, al di là del confine, nacque per dare un senso amministrativo al territorio cittadino passato alla Jugoslavia) Gorizia passò attraverso vicende che ne sconvolsero definitivamente il volto e l’anima: le misure mussoliniane di snazionalizzazione dell’elemento non italiano, poi la guerra e la virtuale annessione al Reich dopo l’8 settembre, le foibe, l’irruzione del comunismo titino. E tuttavia, la mitezza goriziana non morì mai del tutto, se in questa città sorse nel 1966 l’Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei (Icm) a opera di intellettuali, imprenditori, politici, i quali, mantenendo contatti col mondo intellettuale d’oltre confine, faticosamente, cercarono di tenere viva in quegli la fiamma della convivenza e di ricomporre quel tessuto sociale che era stato così brutalmente disarticolato.

E forse non è un caso che proprio nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, e proprio in quegli anni, Franco Basaglia abbia potuto dar vita al suo esperimento rivoluzionario di cura della malattia mentale.

Molte ottime ragioni, insomma, hanno meritato a Gorizia-Nova Gorica la designazione a capitale europea della cultura per il 2025, quando cadrà l’ottantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. Insieme a loro è stata scelta Chemnitz, in Germania, un’altra città altamente simbolica: distrutta da feroci bombardamenti negli ultimi mesi di guerra, finita poi nella Ddr e rinominata Karl Marx Stadt, totalmente ricostruita, solo dopo il 1990, recuperò l’antico nome e il collegamento con la propria storia. Dalla scelta di queste località viene dunque, in questo momento difficile, un messaggio forte di pace, di convivenza e di riconciliazione.