Agorà

INTERVISTA. Globali & disuguali

Davide Gianluca Bianchi sabato 10 novembre 2012
Chi è stato l’uomo più ricco di tutti i tempi? Il triumviro Marco Crasso o John Rockefeller? Non rispondiamo per non togliere al lettore il divertimento di scoprirlo direttamente sfogliando Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze di Branko Milanovic, che esce in questi giorni con il Mulino (pagine 256, euro 16). A dispetto del quesito leggero - in grado di rendere piacevole anche un libro che parla d’economia - il suo autore è uno degli economisti più autorevoli della Banca mondiale. E quella citata, non è neppure l’unica sorpresa che s’incontra aprendo il libro di Milanovic.    Professor MIlanovic, lei dedica le prime pagine a due romanzi classici dell’Ottocento: "Anna Karénina" di Lev Tolstoj e "Orgoglio e pregiudizio" di Jane Austen. Piuttosto inusuale per un saggio economico: come mai questa scelta?«Ritengo che questi romanzi siano in grado di rappresentarci molto bene la condizione economica dei protagonisti e del loro ceto sociale. Il loro train de vie spinge i narratori a offrirci una serie di dati economici che ci consentono la comparazione "diacronica", cioè fra epoche storiche diverse». Il suo libro si divide in tre capitoli, ciascuno dedicato a un aspetto dell’ineguaglianza. Sono le tre dimensioni del problema?«Certo. Il mio intento è quello di guardare al fenomeno dell’ineguaglianza da tre punti di vista diversi: in prima battuta tratto l’ineguaglianza fra individui all’interno di un singolo Paese. E’ l’ambito che abbiamo maggiormente presente, perché i cittadini badano soprattutto all’ineguaglianza interindividuale. È anche l’aspetto più rilevante in termini politici, perché gli interventi pubblici - in particolare quelli di carattere sociale - sono organizzati all’interno degli Stati nazionali. Sebbene sia la più evidente, tuttavia non è l’unica dimensione dell’ineguaglianza». Quali sono le altre?«Il secondo tipo d’ineguaglianza è quello che riguarda le nazioni: come ovvio, vi sono differenze notevoli fra il reddito di nazioni ricche, come per esempio l’Italia, e Paesi poveri, come il Marocco e l’Albania. Come tutti sanno, tale gap è alla base dei flussi migratori dell’ultimo secolo». Rimane soltanto l’ultimo tipo d’ineguaglianza.«Esatto. È quella che la letteratura economica più recente chiama "ineguaglianza globale": si tratta della sommatoria delle due precedenti dimensioni. In questa prospettiva si guarda all’ineguaglianza fra i cittadini del mondo: è una sensibilità piuttosto nuova, frutto della globalizzazione. Vi è anche una componente etica che non mi sembra trascurabile: si studiano le condizioni economiche dell’umanità in quanto tale, a prescindere dal luogo in cui i singoli uomini hanno la fortuna - o la sfortuna - di venire al mondo».Fra gli economisti di cui lei parla, c’è spazio anche per il nostro Vilfredo Pareto: un nome da molti dimenticato...«Senza dubbio, ma ingiustamente. È stato il primo a studiare la distribuzione di reddito in termini empirici: non era esatta la sua tesi che negava importanza all’organizzazione sociale per spiegare l’ineguaglianza, ma aveva certamente ragione quando sosteneva che al vertice di ogni società vi è un’élite, le cui origini sono ovviamente diverse a seconda dei contesti. Per esempio oggi questa élite è legata al mondo della finanza, in passato era d’origine feudale e così via». A suo avviso, vi è una relazione fra la crisi che stiamo attraversando e l’impoverimento del ceto medio americano degli ultimi decenni, attestato da diverse fonti? «Non mi occupo di macro-economia, ma è impossibile non vedere il sincronismo fra la crescita dell’ineguaglianza negli Stati Uniti, la stagnazione dei redditi della classe media e il suo crescente indebitamento. Non ci vuole molto per capire che se le aspettative di consumo continuano a crescere anche quando i redditi rimangono invariati, l’unico modo per non vedere frustrati i propri desideri è quello di indebitarsi: non è un caso, il credito non è mai stato tanto facile come in questi ultimi anni negli Usa. Lo scrivevo nel 2008, in tempi non sospetti, e con me pochi altri: Raghuram Rajan e poi Michael Kumhof e Romain Ranciere del Fondo monetario internazionale. Ultimamente si è aggiunto al club anche Joseph Stiglitz». Quindi se questa è la "diagnosi" - vale a dire, l’impoverimento del ceto medio - quale potrebbe essere la "prognosi" per uscire dalla crisi?«Lei vorrebbe farmi dire: se la crisi si è originata con lo "svuotamento" della classe media e con il suo indebitamento, basterebbe rimpinguarla - e ridurre il suo passivo - per uscirne. È istintivo pensarlo, ma bisogna considerare un punto problematico: le forze della globalizzazione di fatto ostacolano la crescita del reddito del ceto medio dei Paesi ricchi. In altre parole è proprio questo il terreno in cui la competizione dei Bric - le economie emergenti del Pianeta: l’acronimo indica Brasile, Russia, India e Cina - è più forte, perché l’immigrazione dai Paesi poveri, l’outsourcing del lavoro e l’importazione di merci a basso costo riescono ad avere un impatto molto negativo sulla classe mediana del mondo ricco, che non a caso è quella più colpita dalla crisi».