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Cattolici e cultura. Giovagnoli: «Urge ricostruire il rapporto con la storia»

Agostino Giovagnoli martedì 16 aprile 2024

Lo storico Agostino Giovagnoli

Prosegue il confronto avviato da “Avvenire” sul ruolo dei cattolici nella cultura italiana dei nostri giorni. Sul sito di Avvenire sono disponibili i precedenti contributi di Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio e Massironi.

Cattolici e cultura: un rapporto oggi problematico. Roberto Righetto ha fatto bene a sollevare la questione e il dibattito si è sviluppato, a livelli diversi, su vari temi. Vorrei concentrarmi su un problema che a me pare di fondo: per affrontare la questione del rapporto con la cultura, i cattolici devono prima rinnovare il loro sensus ecclesiae. Devono, cioè, ricomprendere che cosa significa essere Chiesa. Potrebbero sembrare due questioni separate o, almeno, lontane. Ma il rapporto con la cultura presenta due aspetti, ad intra e ad extra, riguarda cioè la capacità di trarre dalla propria esperienza una visione originale sul mondo e quella di confrontarsi in modo significativo con le visioni degli altri. Dunque, coinvolge direttamente che cosa è oggi la Chiesa e qual è il suo ruolo nella storia del nostro tempo. La Chiesa cattolica sta cercando di ripensare se stessa in chiave di sinodalità: solo se camminano insieme nella storia, si potrebbe dire, possono essere culturalmente rilevanti. Ma il loro rapporto con la storia non è semplice. Molti problemi in questo campo vengono da lontano. Da quando – dopo la Rivoluzione francese - in Europa lo Stato si è separato dalla Chiesa, questa ha divorziato dalla cultura percepita come alleata dello Stato. Nel 1864, con il Sillabo, Pio XI condannò tutte le principali correnti politiche e sociali del suo tempo, nonché i movimenti storici e culturali che ne erano all’origine. Il prezzo è stato alto. La Chiesa, insomma, ha divorziato dalla storia. Ne scaturì uno “scisma silenzioso” insieme politico, culturale e religioso delle forze più dinamiche del tempo, divorziando dalla cui cultura i cattolici si sono rinchiusi in una bolla subculturale. Pochi furono capaci di superare le distanze createsi in questo modo e non è un caso che Manzoni – uno dei nomi più citati in positivo quando si parla di cattolici e cultura - abbia simpatizzato per il nascente Stato italiano proprio mentre si consumava la rottura tra questo e il papa. A far le spese di quel divorzio ci fu anche la storia intesa come forma di conoscenza e campo di studi. Già nel 1849, Pio IX, convinto che la “rivoluzione” coincidesse con l’“irreligione”, espulse la storia dagli studi ecclesiastici e da allora è stata anche trascurata dalla cultura cattolica, che le ha preferito campi come la filosofia, l’arte, la letteratura. Pochi, prima del Concilio, sono stati gli studiosi cattolici che non hanno considerato la storia un’appendice secondaria della teologia: in Italia don Giuseppe De Luca, Gabriele De Rosa e Pietro Scoppola, in Francia Emile Poulat e non molti altri. Chiudendo le porte alla storia - intesa sia come catena di eventi, sia come forma di conoscenza – la Chiesa ha creduto di tenere lontano il mondo. In realtà, in questo modo, ha preso le distanze anche da se stessa, privilegiando una sua astratta rappresentazione in termini di societas perfecta. La svolta di Pio IX mise a tacere le ecclesiologie impregnate di storia, di oeconomia salutis, di prospettiva pneumatologica, di centralità liturgica, da Adam Moheler ad Antonio Rosmini, da Carlo Passaglia a Clemens Schrader, da Johann Baptist Franzelin a Matthias Joseph Scheeben. I loro temi sono stati tutti ripresi e rilanciati dal Vaticano II, il Concilio che con la dichiarazione Dignitatis Humanae, ha preso anche le distanze dalle condanne del Sillabo e non è un caso che nei suoi documenti la parola storia ricorra ben 64 volte. Ma se dopo il Concilio la Chiesa ha imparato che non può separarsi dalla storia, la finestra che si era aperta sulla conoscenza storica sembra tornata nuovamente a richiudersi e lo studio della storia nelle università ecclesiastiche ad essere trascurato. Nella costituzione apostolica del 2017 Veritatis Gaudium di papa Francesco – un papa sensibile alla storia -, dedicata agli studi nelle università ecclesiastiche, la parola storia ricorre nove volte in affermazioni importanti. Vi si legge tra l’altro: «il Popolo di Dio è pellegrino lungo i sentieri della storia in sincera e solidale compagnia con gli uomini e le donne di tutti i popoli e di tutte le culture»; «la Chiesa deve acquisire “uno stile di costruzione della storia [quale] ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita »; «Gesù crocifisso e risorto [è] centro e Signore della storia». Malgrado si tratti di una costituzione dedicata agli studi ecclesiastici, però, la Veritatis Gaudium non cita mai la storia come disciplina di studio o forma di conoscenza, a differenza della teologia e della filosofia richiamate in questo senso decine di volte. E nelle norme della Congregazione per l’Educazione cattolica – all’epoca si chiamava così – per l’esecuzione di tale costituzione, la storia della Chiesa torna ad essere una parte secondaria della teologia, mentre agli studenti di filosofia si permette al più che tra le materie opzionali venga inserita «qualche scienza umana o […] qualche scienza naturale (per esempio psicologia, sociologia, storia, biologia, fisica)». Eppure, senza storia il cristianesimo è incomprensibile: come dice Marc Bloch, il cristianesimo è una religione profondamente storica (l’unica, insieme all’ebraismo). I cristiani credono che la Resurrezione non sia un mito ma un evento storico e per questo, se molti faticano ad accogliere il loro annuncio, molti altri ne sono attratti. Il popolo di Israele ha avuto un’identità storica che lo differenziava da tutti gli altri popoli ed è una realtà indiscutibilmente storica anche la Chiesa. La teologia, perciò, non può fare a meno della storia, ma nelle facoltà ecclesiastiche la si studia poco. O, addirittura, la si studia in modo sbagliato, come appendice della teologia, ignorandone l’autonomia scientifica e la specificità epistemologica. Può sembrare un problema secondario, ma è indicativo dello scarto tra ciò che la Chiesa è nella sua sostanza profonda, segnata in modo decisivo dalla storia, e ciò che essa pensa di se stessa o ciò che dice al mondo in cui vive. Spesso, infatti, i credenti sono poco consapevoli di costituire un corpo storico e anche per questo, oltre che per i residui di una separatezza subculturale, sono poco capaci di parlare alla cultura del loro tempo. Oggi la storia non si identifica più con la rivoluzione o lo Stato e l’umanità percorre altre strade, come coglie acutamente papa Francesco quando parla di guerra o di emigrazioni. Profondamente legate alla dimensione della storia sono anche la sua attenzione ai poveri e il suo orientamento alla carità. Ma alla sua capacità di portare la Chiesa nel cuore della storia, corrisponde spesso un’inadeguatezza dei cattolici nel tradurre le sue istanze di pace, di sviluppo integrale e di fraternità universale in riflessioni scientifiche, produzioni letterarie, creazioni artistiche ecc. capaci di entrare in dialogo con le culture, spesso frammentate, del nostro tempo.