Agorà

ARTE. Gioconda, 100 anni fa il furto

Philippe Daverio domenica 7 agosto 2011
Cent’anni fa avveniva il primo furto in un grande museo pubblico. S’inaugurava un’era che avrebbe durante il ventesimo secolo stimolato tante funeste emulazioni. Fra il 20 e il 21 agosto del 1911, al Louvre, un operaio italiano svitava dal vetro, che lui stesso aveva poco tempo prima istallato, una tavola di pioppo di 77 per 53 cm e se la portava tranquillamente via sotto il cappotto. A dipinto recuperato, venne due anni dopo condannato a Firenze alla pena sostanzialmente leggera di un anno e pochi giorni, ma aveva nel frattempo inventato, e neanche del tutto inconsapevolmente, il primo mito pop dell’arte: la Gioconda, dopo il recupero e prima di tornare al Louvre, ebbe il diritto a un viaggio trionfale dagli Uffizi a Firenze fino a Roma in periodo natalizio, poi fu mandata a Modane su vagone ufficiale e arrivò a Parigi dove fu accolta dal presidente della République. L’autore del furto, Vincenzo Peruggia, uno di quei decoratori del varesotto che emigravano allora in tutta Europa per via della loro storica competenza, aveva pensato di fare cosa buona in quanto riteneva erroneamente che il dipinto fosse stato una delle prede napoleoniche e che l’Italia, nel primo cinquantenario della sua Unità, meritasse di vederselo restituito. Ignorante il Peruggia: il quadro era stato ceduto, assieme a un piccolo gruppo di altri dipinti, da Leonardo nel 1516 a Francesco I che ospitava l’artista nei lussi di Amboise, per la somma astronomica di quattromila ducati. Patriota il Peruggia: quello era stato per l’Italia un anno di esaltazione formidabile, l’anno nel quale s’era riportata il prima grande vittoria coloniale in Africa, sbaragliando i libici che si difendevano con le lance e quattro fucili ad avancarica, lavando l’onta del primo tentativo fallito di Adua (lì nel 1896 i soldati del negus sparavano diritto e sapevano pure mirare) e consentendo al sommo poeta Pascoli di declamare «La grande Proletaria s’è mossa». Infatti, quando uscì di galera, il Peruggia fu accolto trionfalmente dagli studenti di Firenze che avevano raccolto la somma tutt’altro che indifferente di 4.500 lire a suo favore. Se ne andò poi, il Peruggia, a combattere gloriosamente a Caporetto e se ne tornò a guerra finita dai francesi alleati dove morì tranquillamente nel 1925. Era stato beccato a Firenze perché aveva proposto il dipinto all’antiquario Geri, quello che poi aprì la prima gloriosa casa d’aste a Milano, e il Geri ne aveva parlato col sovrintendente degli Uffizi. In fondo, fino al gesto clamoroso del decoratore di Luino, la Gioconda non era affatto famosa. A Francesco I piaceva molto, ovviamente, e se l’era messa nella famosa Salle de Bains del castello di Fontainebleau. Quello era il suo luogo prediletto, non la sala da bagno, il castello s’intende, e lì era tutto Italia che stava riscattando il gotico francese per inventare il nuovo stile gallico con l’arrivo di Cellini, del Rosso Fiorentino, del Primaticcio. Poi rimase tale la situazione anche sotto Enrico II, quello sposato con la Caterina de’ Medici, quando vi lavorò Niccolò dell’Abate. E la Gioconda stava sempre lì, sopra la vasca da bagno. Luigi XIV ne rimase impressionato e se la portò a Versailles. Fu naturalmente confiscata durante la Rivoluzione e sotto Robespierre fu portata al Louvre che allora non era ancora quello di Denon, ma una sorta di luogo aperto al pubblico nel 1793 per far vedere i tesori dell’odiata nobiltà. Bonaparte, quando divenne Napoleone, s’andò ad acquartierare di nuovo a Fontainebleau, forse perché al suo animo corso garbava tutta questa italianità, e si portò in camera da letto il ritratto della Monna Lisa, a riprova d’un suo efficace gusto nelle arti. A Fontainebleau fece il suo patetico discorso d’addio al potere e ai sogni il 20 aprile del 1814. La Gioconda tornò a dormire al Louvre, dove più di tanto non commosse gli artisti romantici. Ingres andava pazzo, oltre che per il violino, per le delicatezze di Raffaello. Quindi è all’occhio critico ingenuo del Peruggia che si deve il lancio della moglie d’un ricco mercante si sete fiorentine, raffigurata enigmatica da Leonardo nel suo terzo soggiorno sull’Arno fra il 1503 e il 1506, mentre faceva il consulente del duca Valentino, il figlio prediletto di papa Borgia, per la sua folle avventura militare alla conquista dell’Italia, tra l’altro sostanzialmente filo-francese. Ma quell’occhio era soprattutto aiutato dal fatto che la Gioconda era per lui l’opera italiana più facile da rubare. Cinque anni dopo la restituzione, il provocatore più sofisticato della République, Marcel Duchamp, prese una cartolina che la raffigurava, la arricchì di baffi e pizzetto, ci scrisse sotto «L.H.O.O.Q», il che era contemporaneamente un incitamento al guardarla caricaturizzando la parola inglese "look", e una battuta goliardica: «Elle a chaud au cul». Fernand Léger se ne accorse dipingendone una sua versione neoproletaria e dichiarando opera inutile l’originale. Nel 1930 Duchamp ne fece una versione definitiva su di un grande formato stampato in Italia e la regalò al poeta Louis Aragon che la lasciò in eredità al Partito comunista francese. Nel frattempo l’originale era stato aggredito con l’acido e poi con una sassata e messo sotto vetro protettivo. Dalí l’aveva trasformato in autoritratto, Warhol in un opera seriale dal titolo Trenta volte è meglio di una. Ora, nei centocinquant’anni dell’Unità, gli italiani la chiedono in prestito: il ministro francese des Affaires culturelles, forse dopo aver visto le ultime versioni di Botero e di Basquiat, consapevolmente ha detto di no.