Agorà

Sport e salute. Ai Giochi dei trapiantati dove partecipare è già la più grande vittoria

Massimo Iondini domenica 4 febbraio 2018

I partecipanti ai Giochi in parata per ricordare l'amico Elio Ceccon morto nel 2001 in un incidente sugli sci

Aver vinto ancor prima della gara. È successo questa settimana ai Giochi invernali dei trapiantati e dializzati che si chiudono oggi a Chiesa inValmalenco, in provincia di Sondrio. Ma non è certo avvenuto per la prima volta. Accade sempre, da un quarto di secolo. Perché su questo delicato terreno abbagliante e fragile di neve ciò che conta è sapere che la dura salita si può sempre trasformare in discesa. Quotidiani slalomisti della vita chiamati dalla sorte ad aggirare e lasciarsi alle spalle infiniti pa-letti, talmente stretti da togliere il fiato. Da Chiesa la funivia li porta a duemila metri agli impianti sciistici del passo Palù, storica meta di lombardi soprattutto milanesi. Qui, negli anni, trapiantati e dializzati di mezza Europa si sono dati appuntamento per rivincere insieme ogni volta la gara di una vita ritrovata o da riabbracciare presto, nel caso di chi è sottoposto a dialisi e attende la fatidica chiamata per quel rene che gli può ridare la libertà. Ma non c’è trapianto senza donazione, l’atto di solidarietà più grande che proclama la vita ponendola di diritto sul gradino più alto di ogni podio.

Lo sa bene il 37enne Marco Rigo che con la malattia va a braccetto dall’età di cinque anni e che della vita ha fatto un Supergigante. «Il giorno dopo il mio sesto compleanno – ci racconta al termine della sua penultima giornata di gare – sono stato ricoverato e ho iniziato il mio viaggio nei meandri della sofferenza. Avevo preso il morbillo, ma anziché guarire come succede quasi sempre con le malattie infettive mi ero ritrovato con forti dolori alla schiena e a un fianco. Dopo un mese all’ospedale di Legnano, dove sono nato e risiedo, fui trasferito alla clinica De Marchi di Milano. Da esami più approfonditi la dura sentenza: rene policistico infantile». Marco ovviamente non capisce, la sua famiglia sì. Dall’insufficienza renale cronica a una paresi facciale fino all’entrata forzata in dialisi il passaggio è breve. Il suo tempo di bambino viene così scandito per ore e ore da una macchina. «Studiavo e leggevo, ho imparato a fare tesoro di ogni momento, che è sempre e comunque vita».

Finalmente, dodici anni dopo avergli dato la vita, sua madre supera i test di compatibilità e gli dona un suo rene. Marco torna a una vita normale, mentre le elementari lasciano il posto alle medie. Passa però un solo anno e l’incubo prende forma: rigetto cronico. Cominciano due anni di “stampelle” farmacologiche, finché a 15 anni di nuovo la dialisi. Le medie si trasformano in liceo. «In quei nuovi cinque anni di dialisi – racconta Marco – alla mia fantastica mamma se ne è aggiunta un’altra, Franca Pellini, la fondatrice dell’Aned. C’era anche lei ad aiutarmi e a spronarmi a condurre una vita il più possibile normale». Il liceo finisce e Marco si iscrive a Ingegneria al Politecnico di Milano. Abbracciando anche un’altra decisiva fonte e risorsa: lo sport. E proprio alla compianta grande animatrice dell’Associazione nazionale emodializzati - dialisi e trapianto Onlus è intitolato da nove anni uno dei due trofei dei Giochi invernali. «Da dializzato iniziai a giocare a ping pong – continua Marco –, avevo la necessità di un’attività che mi facesse stare bene. Grazie ad Aned partecipai anche agli Europei di Atene e vinsi addirittura l’oro, mentre l’inverno dopo feci i miei primi Giochi da sciatore». Ma un’altra vittoria intanto è dietro l’angolo: il 16 dicembre del 2000 arriva un nuovo atteso rene: è il secondo trapianto (stavolta, però, non da vivente). Anche il giorno della sua laurea era un 16 dicembre. Da trapiantato intanto fioccano valanghe di medaglie: da pongista due ori mondiali (nel 2005 in Canada e l’anno scorso a Malaga) più uno nel doppio sempre in Spagna, dove conquista anche nel volley un bronzo, come nello sci alcuni Giochi fa.

Chi di ori sulle nevi ne ha invece conquistati a bizzeffe è il più glorioso commissario tecnico che la nazionale di sci abbia mai avuto, il valtellinese prossimo 75enne Mario Cotelli. C’è anche il padre della leggendaria “valanga azzurra” (capitanata da Gustav Thöni e Pierino Gros in quei favolosi anni Settanta) qui in Valmalenco a fare da storico padrino ai Giochi organizzati dall’Aned in collaborazione con Aido, Admo e Avis. «Da quattro anni sono anch’io un dializzato – svela Cotelli –. Colpa della più subdola delle malattie, il diabete, che mi ha anche causato problemi circolatori alle coronarie e alle gambe a causa dei quali non ho voluto rischiare di sottopormi anni fa al trapianto di reni. L’importante è che mi funzioni la testa. Per il resto dalla vita ho avuto tanto, compreso l’aver guidato grandi campioni. Non solo quelli che hanno vinto tutto nei miei otto anni da ct. Ce n’è uno che non ha fatto parte della “valanga azzurra”, ma che è stato uno dei miei migliori giovani allievi, Cesare Lenatti».

Campione giovanile nel ’69 e vincitore della Coppa Italia in slalom gigante nel ’74 e ’75 e in slalom speciale nel ’76, l’oggi 65enne Cesare Lenatti è poi diventato un campione anche nella vita. Anch’egli trapiantato di rene, è da vent’anni l’anima organizzativa e, con l’albergo Tremoggia di Chiesa (centenario gioiello di famiglia), il padrone di casa dei Giochi invernali. «Bisogna tenere sempre vivo lo spirito che anima la cultura della donazione – dice –, perché soltanto con una continua azione di sensibilizzazione possiamo sperare di ridare una vita più piena alle migliaia di persone che sono in lista di attesa per un trapianto d’organo. Io ho avuto il privilegio di riprendermi la vita e sento il dovere morale e concreto di propagare questo dono». E mentre lo dice, ricordando l’amico Elio Ceccon morto in un incidente sulla neve nel 2001 mentre partecipava ai Giochi (a lui è intitolato uno speciale trofeo), guarda negli occhi Antonio Bergomi, tra pochi giorni trentenne. Ha poco meno dell’età dei suoi due figli e abita a tre chilometri, a Lanzada. Due anni fa il suo cuore lo ha tradito e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo lo hanno trapiantato. Una cardiopatia ereditata dal padre, morto troppo presto. Per questo, per alimenare la speranza e la cultura del dono, i Giochi non sono (mai) fatti.