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Scenari. Gilles Lipovetsky: «Siamo moderni... anche troppo»

Simone Paliaga sabato 3 luglio 2021

Il filosofo francese Gilles Lipovetsky

«Non corre giorno che non si ricordi di come la pandemia cambierà il mondo in cui siamo finora vissuti. Ci sarà un prima e un dopo il Covid, sentiamo ripetere senza sosta. Ecco, io non penso sia così» ribadisce ad 'Avvenire', attraverso la piattaforma Zoom, Gilles Lipovetsky. Il filosofo e sociologo, che da anni studia lo sviluppo delle società contemporanee adottando posizioni fuori dal coro, è perentorio. E per argomentarlo adotta gli strumenti elaborati nel suo pluridecennale cammino di pensiero scandito dai numerosi libri pubblicati tra i quali si ricordano almeno L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico scritto con Jean Serroy, uscito in Italia da Sellerio, e Piacere e colpire. La società della seduzione dato alle stampe da Raffaello Cortina. Delle caratteristiche delle società del XXI secolo Lipovetsky parlerà, intervistato da Giulio Brotti, giornalista di 'L’Eco di Bergamo', e Giuliano Zanchi, direttore scientifico della Fondazione Adriano Bernareggi, oggi pomeriggio alle ore 18 presso il Monastero di Astino nel corso della seconda giornata di Bergamo Festival. L’incontro, al cui centro sta il tema La società ipermoderna e la sfida del futuro, è a ingresso gratuito, previa iscrizione on line sul sito internet www.bergamofestival.it, ma con un numero di posti limitati per ragioni di sicurezza. Chi non riuscirà a prenotarsi potrà comunque seguire il dibattito anche in diretta streaming sui canali Facebook, YouTube e sul sito del festival.

Professor Lipovetsky, perché preferisce parlare di società ipermoderna invece che di società postmoderna?

«Perché non viviamo il dopo modernità ma, anzi, noi siamo sempre più moderni. L’idea di postmoderno, nata tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso con Jean-François Lyotard per denunciare la morte dei grandi racconti e spiegare come l’immaginario della rivoluzione fosse scomparso, non coglie nel segno. Si tratta di un concetto sbagliato. I principi della modernità, il mercato, l’individualismo e la tecnica, oggi sono più attivi e forti che mai. Anzi possiamo dire che si sono radicalizzati. Tutto è colonizzato dal mercato, la rivendicazione dell’autonomia degli individui si espande sempre di più e lo stesso vale per l’uso delle tecnologie. Basti pensare alla ricerca sul genoma, alle nanotecnologie, alla diffusione delle tecnologie della comunicazione… tutto è trasformato dalla tecnica. Per queste ragioni preferisco parlare di società ipermoderna».

Ma quando è avvenuto il passaggio dalla società moderna alla società ipermoderna?

«È avvenuto con la società della comunicazione e con la diffusione del libero mercato e comincia a muovere i suoi primi passi dopo la Seconda guerra mondiale. Nel corso dei decenni successivi il processo subisce poi un’accelerazione con la diffusione di internet, il realizzarsi della globalizzazione economica e l’imporsi della società dei consumi».

La pandemia divampata in quest’ultimo anno ha cambiato qualcosa?

«Assolutamente no. Da febbraio dello scorso anno, da quando è scattato il confinamento per arrestare il diffondersi del Covid, con insistenza si annuncia la fine di un’epoca. Ma non è così. La pandemia ha solo accentuato dei processi già in atto. Quello che accade oggi era già stato preparato in precedenza. Non è che il telelavoro, gli acquisti on line, la didattica da remoto non esistessero prima. Ora se ne è solo acuito il peso».

Quale sfida ci attende per gli anni a venire?

«Per la precisione parlerei di quattro sfide. La prima è quella climatica. Ormai non si può dire che non ci sia coscienza del cambiamento climatico in atto ma questo non basta. E anche se sono un ottimista mi rendo conto che oggi non abbiamo più tempo da perdere. Bisogna intervenire subito, promuovendo la decarbonizzazione dell’economia. Possono aiutare a farlo la finanza, sostenendo lo sviluppo sostenibile, e gli Stati e l’Europa introducendo una tassazione differenziata per chi non rispetta gli standard previsti».

Quali sono le altre sfide che bussano alla porta?

«Un’altra è l’immigrazione. Al momento Spagna e Italia sono i paesi più colpiti in particolare per quanto concerne la migrazione che proviene dall’altra parte del Mediterraneo. Occorre però trovare una soluzione perché realisticamente l’Europa non ha i mezzi per accogliere tutti coloro che vogliono raggiungerla. Ma questa soluzione deve essere collettiva e solidale. È una sfida che l’Europa non può permettersi di perdere».

In che senso?

«In questo momento l’Europa è malata di populismo, ed ecco la terza sfida. Lo si vede in Polonia, in Ungheria e anche nel Regno Unito. La forza di questi movimenti è testimoniata dalla riuscita della Brexit. Non bisogna illudersi che sia finita perché è un modello che può moltiplicarsi».

E l’ultima sfida, professore?

«È quella dell’educazione. Oggi l’educazione è centrata sull’ascolto ed è volta a promuovere l’autonomia dei ragazzi. Questo è sicuramente positivo ma reca in sé anche degli aspetti negativi. Ormai ha trionfato la figura del bambino-re, in cui è lui a condurre il gioco. Non va bene però che il bambino faccia solo ciò che vuole o preferisce perché l’educazione non è questo. Anzi così si celebrerebbe il suo fallimento. Non solo perché non tutti i ragazzi saprebbero approfittare di questa situazione e si creerebbero così delle ingiustizie. Ma anche perché la scuola deve sollevare dal proprio ambiente non confermarci in esso».

Come uscirne, secondo lei?

«Il liberalismo totale non funziona, e lo dico da liberale. Bisogna reinventare il metodo pedagogico e reintrodurre delle parti di disciplina perseguendo sempre l’autonomia. Insomma occorre usare il buon senso e trovare una via di mezzo tra i due estremi».

E come?

«Da un lato celebrando la figura dei maestri e le loro capacità di seduzione ma anche incentivando il lavoro sulle pratiche artistiche. Attraverso il teatro, per fare solo un esempio, si incentiverebbe l’invito alla lettura. Inoltre con le pratiche artistiche si esprime se stessi e incoraggiandole tra i giovani si fornirebbero a loro gli strumenti per poterlo fare».