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Architettura e società. Giedion, la tradizione dei costruttori moderni

Maurizio Cecchetti venerdì 11 marzo 2022

Il Pont Transbordeur di Marsiglia. Una delle architetture emblematiche esaminate da Giedion

Il nome oggi non circola molto, gli studiosi di storia dell’architettura lo conoscono assai bene ma lui non è più tanto presente nel dibattito. Sigfried Giedion però è stato un critico e uno storico dell’architettura molto influente nella prima metà del Novecento. Si laureò in ingegneria a Vienna nel 1913, mentre dominavano le Wiener Werkstätte, le officine viennesi dove proprio nell’architettura il fattore decorativo e stilistico sembrava avere la meglio sul quello costruttivo. Giedion poi decise di seguire a Monaco di Baviera i corsi di Heinrich Wölfflin, il grande storico il cui metodo si fondava sulle coppie dialettiche o bipolari (il saggio di riferimento è Concetti fondamentali della storia dell’arte).

Che Giedion si fosse addottorato nel 1922 con una tesi su Tardobarocco e classicismo romantico è semplicemente una conseguenza e una continuazione della lezione di Wölfflin che al classicismo rinascimentale e al barocco aveva dedicato vari studi. Ma qualcosa doveva stargli troppo stretto se rifiutò di abbracciare la carriera accademica per dirigersi invece a Weimar dove Gropius aveva fondato nel 1919 il Bauhaus. Questo, in realtà, rende chiare le inclinazioni “avanguardiste” di Giedion. Che ora si possono verificare sul volume dal titolo tra il programmatico e il denotativo: Costruire in Francia. Costruire in ferro. Costruire in cemento, che esce da Quodlibet sotto la cura di Emiliano De Vito, con una introduzione di Jean-Louis Cohen (pagine 180, euro 30). Il libro venne pubblicato da Giedion nel 1928, lo stesso anno in cui assieme a Le Corbusier fondò in Svizzera nel Castello di La Sarraz i celeberrimi Ciam (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne) che dovevano sperimentare e diffondere il modernismo architettonico a partire dai principi di razionalità e funzionalità. La scommessa etica, risultata alla lunga fallimentare proprio perché non risolse la questione sociale delle abitazioni e nemmeno i problemi di organizzazione delle città, era riassunta, per esempio, nell’espressione Existenzminimum (il minimo spazio vitale per ciascuno), tema del secondo congresso a Francoforte nel 1929.

Giedion era il segretario generale dei Ciam, che si sciolsero nel 1956. Il suo libro quando uscì non ebbe l’accoglienza che forse Giedion, di lingua tedesca, si aspettava. E infatti ha dovuto aspettare decenni prima di essere tradotto e la sua ricezione fu tutto sommato relativa, forse perché persisteva l’antica ruggine fra francesi e tedeschi acuita dalla sconfitta germanica nella Grande guerra. Gropius però lo apprezzò e quando andò a insegnare ad Harvard si portò dietro Giedion che in un decennio scrisse due saggi che lo hanno reso celebre: Space, Time and Architecture (1941) e Mechanization takes Command. A Contribution to Amonymous History (1948) dove non fa altro che applicare e ampliare quanto aveva già cercato di dire nel libro del 1928, in particolare indagando il genio anonimo – come quello dei cantieri medievali, si potrebbe dire – che manifesta, con l’avvento del cemento armato e del ferro, una nuova capacità costruttiva.

In un certo senso, questo saggio pionieristico ci fa capire che nel vocabolo «costruire» Giedion comprendeva il senso di una tradizione, argomento che affrontò poi in America tenendo un ciclo di lezioni da cui nascerà Spazio, tempo e architettura il cui sottotitolo è appunto «sviluppo di una nuova tradizione». Che cosa implica i termine tradizione? La grande questione ottocentesca della separazione ostile fra ingegneri e architetti: i primi avevano riposto nel ferro e nel cemento armato la loro vocazione di costruttori: ponti, Esposizioni universali, grandi magazzini, biblioteche, mercati (le Halles parigine, per esempio), stazioni ferroviarie, tutto nasceva sotto l’egida strutturista degli ingegneri. La tour Eiffel o il Pont Transbordeur di Marsiglia ne divennero gli emblemi (quest’ultimo campeggiava in copertina nell’edizione originale del libro, con la direzione artistica di Moholy-Nagy, e figura anche in questa edizione italiana). Gli architetti invece erano considerati dei decoratori e venivano lasciati a trastullarsi coi giochi stilistici nella voga eclettica poi tanto vituperata e alla base della svolta che Le Corbusier volle imprimere all’architettura facendo l’elogio degli ingegneri e pensando la costruzione nella maniera più funzionale e razionale possibile, praticando anche la standardizzazione con le Maison Dom-Ino.

Eppure Le Corbusier nel 1923, in Vers une architecture, aveva scritto: «A coloro che, assorti nel problema della “macchina da abitare” dichiaravano: “l’architettura significa servire”, abbiamo risposto: “l’architettura significa commuovere”. E siamo stati accusati di essere dei “poeti”, con disprezzo ». Costruire, espressione, poesia: sono i tre termini che anche Giedion in qualche modo contempla. Gli ingegneri hanno trovato la strada nuova per una tradizione: costruire; inoltre, lo spazio si svuota, lascia entrare la luce, non ha più bisogno di orpelli per rendersi vitale: la Gestaltung, termine difficile da rendere, come nota De Vito, che lo traduce con formazione, espressione formale, concezione formale, implica l’osmosi dello spazio fra interno ed esterno, uno dei punti fermi del modernismo, che Giedion lega al fluttuare, l’essere sospeso, librarsi. Una leggerezza che riprende l’idea del vuoto come fattore attivo, per esempio, nell’arte e nell’architettura giapponese, cui l’architettura razionalista deve molto (Ragghianti vi dedicò un saggio illuminante intitolato Architettura liberatrice), contrapposto al peso e alla pienezza di corpo occidentale: dialettica svolta magistralmente da Focillon in un saggio sull’arte buddhista.

Così l’espressione e la formazione non sono valori astratti, ma termini essenziali con cui l’arte nella forma diventa vita («movimento interiore»). E in questa fluidità dello spazio la tecnica si libera del suo tecnicismo e diventa poesia costruttiva. La Scuola di Chicago, i bellissimi grattacieli di Sullivan e degli altri, potevano convivere nel mondo nuovo coi silos per sementi che Gropius definì propilei della modernità dopo il primo viaggio americano. La nuova tradizione dunque è antica, come le cattedrali un tempo furono bianche. Ci rendiamo conto, allora, che lo slogan «la forma segue la funzione» servì da leva sullo stallo nel quale l’eclettismo e l’invenzione tecnica non comunicavano riducendo l’architettura a un ostaggio sacrificale.

Le Corbusier – il vero ideologo dell’architettura moderna – ha capito che questa battaglia si poteva vincere soltanto con nuove visioni poetiche speculari a nuove tecniche dalla mentalità funzionale ma ancorata al senso antico delle cose. Oggi forse ci vuole una scossa analoga che faccia capire alle archistar come l’immaginazione in libertà applicata a una tecnica onnipotente genera soltanto un simulacro di architettura. Un libro, questo di Giedion, che può suggerire molte riflessioni su come i nani di un tempo sapevano di dover salire sulle spalle dei giganti per vedere lontano. Ribaltare la scala, è quel che invece accade oggi.