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Cinema. «Tra la terra e il cielo»: GHAYWAN e il passaggio in India

Luca Pellegrini giovedì 2 giugno 2016
Devi, ragazza bella e sensibile, si sente responsabile di una morte. Deepak, che pur coi morti ha a che fare ogni giorno, viene lacerato dalla scomparsa di Shaalu, studentessa di cui si era innamorato. In mezzo scorre un fiume, il Gange, e l’India è la gran scena ove questi dolori e amori scorrono con lentezza. Sono personaggi che si trovano, come dice il titolo, Tra la terra e il cielo, nell’opera prima con la quale il regista indiano Neeraj Ghaywan ha vinto lo scorso anno a Cannes il “Prix de l’avenir” della sezione “Un certain regard” e il premio della critica Fipresci. Un film ora arrivato nelle sale italiane. «Lavoravo in una società – racconta il cineasta di Mumbai –, mi occupavo di economia, ma ero in crisi, avevo abbandonato tutto perché mi piaceva il cinema, da sei mesi i miei genitori non mi rivolgevano più la parola. Un amico mi aveva parlato dei ghat a Varanasi, le gradinate di pietra che conducono agli argini del Gange dove si incontrano i fedeli che si immergono nelle acque del fiume sacro e pregano e dove tradizionalmente vengono accese le pire per le cremazioni. Mi aveva spiegato che chi si occupa di cremare i corpi è privo di ogni emozione e gestisce il lavoro secondo codici antichissimi. Sono rimasto affascinato dal suo racconto. Ho cominciato così a immaginare la storia di Deepak, che appartiene alla casta degli intoccabili, i dalit, perché soltanto loro possono fare questo lavoro, considerato un atto impuro. L’idea era quella di seguire lo sviluppo anche emozionale di una persona che è a contatto con la morte ogni giorno». Il regista GhaywanCome si è preparato al film? «Ho studiato due anni quell’ambiente, mi sono trasferito a Varanasi per parlare con le persone che lavorano giorno e notte sui ghat, per osservarli, capire il senso del loro lavoro. A dire il vero, nemmeno gli indiani sanno molto degli addetti alle cremazioni. Per questo dovevamo essere molto precisi. Ho cominciato a scrivere la sceneggiatura, mettendo insieme i volti e le storie che avevo visto e ascoltato». È stato difficile girare le scene delle cremazioni? «All’inizio avevamo deciso di girare sui veri ghat ma poi abbiamo pensato che non sarebbe stato rispettoso per le persone che nel lutto piangono i loro morti. Così abbiamo trovato un ghat abbandonato e lì abbiamo allestito il set per girare le scene più intense». Mark Twain disse della città sacra di Varanasi: “È più antica della storia, più antica della tradizione, persino più antica della leggenda e ha l’aria di essere più antica di tutte e tre messe insieme”. Che cosa rappresenta per lei Varanasi? «È conosciuta come la città dei morti, il luogo più sacro dell’India, dove la gente si prepara a morire perché per la religione induista solo così puoi accedere alla salvezza. Eppure la gente che ci lavora è talmente piena di vita! Parlano di tutto: di sport, cibo, politica, cultura, divertimento. Ho percepito un enorme contrasto. Ma Varanasi fino ad oggi era stata rappresentata al cinema come un luogo esotico o ancor peggio turistico, mentre io volevo descriverla così come è. Comunque il mio film non è sulla città ma sulla gente che vi abita. Volevo tornare all’umanità dell’India e alle sue contraddizioni e raccontarle dal punto di vista dei giovani». I quali si trovano come accerchiati, però, dalla forza delle tradizioni. «Siamo una grande democrazia ma fronteggiamo ogni giorno la tradizione legata alla nostra cultura. Varanasi ne è lo specchio, il simbolo. Il film rappresenta questa realtà: c’è gente anziana ma anche giovani che affrontano questo stato di cose. Il nostro è un mondo soggetto al cambiamento. I ragazzi vogliono emanciparsi da queste imposizioni, si sentono prigionieri. Non a caso, ciascuno dei protagonisti del film desidera fuggire, magari solo dalla sua condizione. Poi c’è il problema delle caste, che nel nostro Paese è ancora grandissimo. Nessuno lo vuole affrontare perché è troppo complesso. Nel film il problema non è centrale, ma c’è. Deepak è un dalit, ambizioso, vuole affrancarsi da questo giogo, essere se stesso, innamorarsi della ragazza che gli piace. È un bravo studente, cerca un lavoro. Devi invece è tranquilla, vuole solo conoscere se stessa e amare il suo ragazzo. Ma anche questo in India può essere un problema, perché la nostra è una società protezionistica e protettiva». Ma lei nel suo film dimostra anche un profondo amore per l’India... «Sì, ma non voglio nemmeno passare per un nazionalista. Voglio solo riconoscere che ci sono cose giuste e cose sbagliate. Non giudico e non commento. C’è modernità e chiusura, gli anziani non amano che le tradizioni siano messe in discussione. Nel film c’è un poliziotto corrotto che ricatta il padre di Devi, il quiale si trova nel mezzo di questi due mondi, perché è anche colto e progressista. Ma entrambi sono in una situazione di degrado: l’uno vuole evitare lo scandalo e uscire dall’umiliazione in cui lo ha portato il comportamento della figlia, e per questo accetta di corrompere, l’altro sfrutta questa debolezza. Sono tutti e due moralmente riprovevoli. Come regista ho cercato di mantenere una bussola morale». Ha affermato che il tema della morte aleggia su tutti i suoi personaggi. Perché? «Nel film c’è il tema della perdita, ma anche la necessità di affrontarlo in modo catartico. Non si tratta solo di perdere qualcuno di amato, ma di fare di tale perdita un modo per crescere, per diventare più saggi. È quello che succede a Deepak che accetta la morte improvvisa di Shaalu e a Devi che capisce il punto di vista del padre. Tutti e due aspirano a raggiungere un luogo. Per me il film è un racconto di formazione, in cui il dolore può essere positivo e non portare alla disperazione». Nella scena finale, assai evocativa, i due ragazzi che poco prima si erano incontrati nel pianto, salgono su una piccola barca, al tramonto. «Due persone come loro, colpite così duramente, cercano di liberarsi dal peso del dolore. Hanno capito che quanto è successo loro in passato se ne sta andando e che sono finalmente liberi di poter affrontare il futuro, qualsiasi esso sia. La barca naviga verso uno dei luoghi più sacri per la religione indù, il Sangam, ossia la confluenza di tre fiumi, Gange, Yamuna e il mitico Saraswati: per loro è una meta anche metaforica, dove potrebbe avvenire la rigenerazione. Rasserenati, stanno pacificamente andando incontro alla speranza».