Agorà

Letteratura e calcio. L'ultimo Eduardo Galeano è un inno alla bellezza del fùtbol

Massimiliano Castellani venerdì 5 aprile 2019

Lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano (1940-2015)

Sono rari quegli scrittori dotati del dono di far sorridere e poi di commuovere, magari anche nell’arco della stessa pagina. E questo è ciò che accomuna l’argentino Osvaldo Soriano e l’uruguaiano Eduardo Galeano. Osvaldo e Eduardo Galeano. I due “fratelli sudamericani”, uniti nello stare sempre dalla parte degli ultimi, vicini agli artisti irregolari o dimenticati e ai perseguitati.

Loro stessi sono dovuti scappare, esuli in fuga dalla furia dei regimi militari. Soriano finito nella lista nera di Videla volò a Bruxelles (da cui scriveva lettere al nostro “bracconiere maximo” Giovanni Arpino), Galeano nel ’73 lasciò la sua Montevideo per riparare mestamente a Buenos Aires. Tristi, solitari, ma mai finali. Fino all’ultimo respiro infatti entrambi hanno continuato a vivere da bracconieri di storie. Soriano se ne è andato troppo presto, nel 1997, a 54 anni. Galeano ha resistito fino alla 75ª primavera, a stroncarlo è stato un cancro (al polmone) il 13 aprile del 2015. La resa del narratore dalla Memoria del fuoco, per il quale scrivere era «l’ossessione del ricordo» e «ricordare – ripeteva – deriva da “re-cor”, cioè ripassare dalle parti del cuore».

Ed è una carezza che scalda il cuore questo suo “testamento artistico” Il cacciatore di storie. Il meglio del repertorio di un aedo cresciuto al caffè letterario, come i suoi grandi epigoni: da Émile Zola che scrisse il suo J’accuse al Cafè de la Paix di Parigi, a Machado de Assis e l’accademia brasiliana riunita ai tavoli del Cafè Colombo di Rio de Janeiro, fino al Café El Cairo «che non è in Egitto ma nella città argentina di Rosario» (città natale di Che Guevara e di Leo Messi), in cui era facile trovarvi lo scrittore e disegnatore Roberto Fontanarrosa, simbolo anche del nobile club del Rosario Central.

Fontanarrosa, detto “El Negro”, sosia smilzo del “Gordo” Soriano, è uno di quei pensatori anche con i piedi che come Galeano hanno destabilizzato la vecchia intellighentia sudamericana che il calcio lo aveva messo al bando, nonostante il grande visionario Borges proclamasse: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio». La personale storia d’amore di Galeano con il calcio custodisce un segreto che lo scrittore uruguagio doveva rivelare «prima di portarmelo nella tomba... Io so perché l’Uruguay vinse il Mondiale del 1950», Galeano confessa: «Avevo nove anni ed ero molto religioso, devoto del calcio e di Dio, in quest’ordine» quando visse il mitico Maracanazo compiuto dalla Celeste trascinata sì «dalla bravura di Obdulio ( Varela), dall’astuzia di Schiaffino e la velocità di Ghiggia», ma soprattutto dalle sue preghiere: «Dio mio, fammi il favore, ti prego no me puoi negare questo miracolo... E gli feci la mia promessa». Il “miracolo” avvenne, «l’Uruguay vinse ma io non riuscii mai a ricordare quello che avevo promesso», si legge nelle pagine di questo libro-scrigno che la “voce dell’India” Arundhati Roy giustamente definisce «la dimostrazione del genio di Galeano».

Un genio ribelle, per il quale il fùtbol era uno dei tanti registri narrativi, e «ogni volta che noi uruguaiani vinciamo un trofeo di calcio celebriamo il trionfo della “resistenza charrua”». Galeano come Soriano, giornalista prestato allo sport, un Giulio Cesare contemporaneo capace di raccontare la guerra mentre si “combatte” sui campi di calcio di tutto il mondo. Il fascino della Coppa Rimet, la prima vinta nel 1930 dall’Uruguay, gli consente di pennellare uno degli «scarabocchi» cronistorici, come quello di Ottorino Barassi, un dirigente italiano che conservò la Coppa - originariamente era tutta d’Oro - in una scatola di scarpe, per poi consegnarla alla Fifa. Nell’anno del Mondiale inglese,1960, la Coppa venne rubata, a Londra, per la prima volta. A ritrovarla fu un cane al servizio di Scotland Yard, Pickles, poi nominato eroe nazionale. Il secondo furto, nel 1983, fu fatale perché la Coppa venne sezionata in tanti lingotti d’oro e «scomparve nel mercato nero di Rio de Janeiro».

Si tratta di frammenti, perle che riaffiorano da quell’immenso oceano saggistico che è il suo Splendori e miserie del gioco del calcio. Un’opera summa, capace anche di salvare la vita al deputato messicano Victor Quintana. Alla metà del 1997 il politico venne sequestrato, volevano punirlo per le sue denunce sulla malavita organizzata. Era a un passo dal patibolo Quintana, quando intercettando il tifo calcistico dei suoi sicari iniziò a raccontare, come fossero sue, le storie di Splendori e miserie del gioco del calcio. Alla fine, racconta Galeano, «legato e malconcio, ma vivo, Quintana venne liberato con i suoi carcerieri che, grazie alle storie di fùtbol «se ne andarono da un’altra parte con le loro pallottole». Un fuoriclasse Galeano che del suo lessico famigliare amava dire: «Le parole, uso soltanto quelle che possono migliorare il silenzio».

Un generoso fuori e dentro la pagina, che sul fronte solidale ammoniva: «La carità è verticale... non mi piace, la solidarietà invece è orizzontale, ha rispetto degli altri». Tra i tanti piccoli eroi esemplari del pallone un posto di assoluto rispetto nel suo cuore ce l’aveva il “Dottore” brasiliano Socrates. Un rivoluzionario a capo della «Democracia Corinthiana», la quale «finché durò, gestita dai suoi giocatori, offrì il calcio più audace e intrigante di tutto il Brasile, attrasse le folle più grandi negli stadi e vinse due volte di seguito il campionato paulista».

Galeano ha sempre creduto in un calcio e in un mondo in cui i protagonisti fossero uomini liberi. Ma il capitalismo assurdo e criminale, responsabile de Le vene aperte dell’America latina (altra sua opera fondamentale), ha finito per cancellare culture millenarie. «È più libero il denaro che la gente. Le persone sono al servizio delle cose», denunciava da difensore estremo dei valori non negoziabili.

Un nomade sempre in viaggio con la fedele compagna di vita, la macchina da scrivere, portata con sè anche nella jungla amazzonica per poter annotare: «Da qualche parte in una foresta qualcuno ha commentato: come sono strani i civilizzati. Tutti hanno orologi e nessuno ha tempo». Il suo tempo perfetto era dentro ai 90 febbrili minuti di una partita di calcio, uno spazio in cui si sentiva a riparo dai mali del mondo e dagli incerti del mestiere di vivere, e poteva sognare. «Se non ci fosse il diritto di sognare tutti gli altri diritti morirebbero di sete», ha lasciato detto Galeano che seduto a un caffè del quartiere Raval, a Barcellona trovò la risposta universale sulle pagine di un giornale in cui una mano anonima ha scritto: «Il tuo Dio è ebreo, la tua musica è nera, la tua macchina è giapponese, la tua pizza è italiana, il tuo gas è algerino, il tuo caffè è brasiliano, la tua democrazia è greca, i tuoi numeri sono arabi, le tue lettere sono latine. Io sono il tuo vicino. E tu mi chiami straniero?».

Eduardo Galeano
Il cacciatore di storie
Sperling & Kupfer. Pagine 252. Euro 16,90