Agorà

L'INCHIESTA. Anche Galdiolo nella rete della Sla

 Massimiliano Castellani venerdì 20 agosto 2010
Quando al Bar dei Fiori arriva il Giancarlo, si alzano tutti in piedi e fanno a gara per prendergli la sedia. «Siediti qui...», gli dicono premurosi il “Fru” (Franco), L’Avvocato, il Pitar, Mantellini, Domenico. Sono gli amici del cuore che hanno le lacrime agli occhi, perchè non possono vedere il Giancarlo in quelle condizioni. È il loro eroe, il genius loci di Castrocaro che avanza a tentoni, aggrappandosi al figlio Alessandro.«Chi non conosce il campione?». Quel duro dal cuore tenero, ha insegnato calcio a intere generazioni di giovani in paese. L’amico dei bambini, suoi allievi, e degli anziani («un asso a calcio e bridge»), specie quelli che aveva conosciuto e con cui era cresciuto da ragazzo e che fino a qualche mese fa andava a trovare all’ospizio per tenergli compagnia, a tirarli su di morale con una partita a carte e quattro risate in allegria. Questo è l’uomo Galdiolo. La figurina Panini invece recita Giancarlo Galdiolo, classe 1948, una delle bandiere della Fiorentina degli anni ’70. Lo stopper fiero chiuso in Nazionale da Morini e Spinosi, ma che a testa alta ha fatto sempre fino in fondo il suo mestiere, il lavoro sporco del difensore arcigno, difficile da svalicare, come il Muraglione che da casa sua porta a Firenze. Con quel fisico da gigante (185 cm di altezza per 84 kg di peso) di granito, figlio della razza Piave, aveva governato la difesa viola dal 1971 all’80.Il decennio “maledetto” in cui troppe sono state le vittime di quella che a questo punto non si può che definire la misteriosa Fiorentina degli anni ’70. Nel “giallo viola” ora c’è finito anche Galdiolo, caduto nella rete della malattia, la più terribile, la Sla (Sclerosi laterala amiotrofica) il Morbo di Gehrig, ma forse, visto il numero crescente dei casi di calciatori affetti possiamo anche chiamarlo il “Morbo del pallone”. Una brutta storia comunque, che Galdiolo non può raccontare perché da qualche tempo non riesce più neppure a parlare. Così il suo pensiero è affidato al figlio maggiore, Alessandro, diventato l’autentico “bastone” a cui sorreggersi, per non cadere a terra, senza più neppure la forza per rialzarsi. «È successo tutto così in fretta... A dicembre vedevamo che papà era un po’ assente, si lamentava spesso perché aveva dei vuoti di memoria, faceva dei ritiri bancomat 2-3 volte al giorno. Pensavano a un principio di Alzheimer, poi dopo le analisi i medici hanno capito che non aveva solo il cervello compromesso ma anche il motoneurone». Una diagnosi un po’ confusa, ma impietosa, raccolta in tre lettere: “Sla”. Ma una delle forme peggiori, quella con “demenza fronte temporale”. Non ci potevamo credere. Oddio, pensammo, la stessa malattia di Borgonovo...». Cominciano le trasferte della speranza per le visite specializzate nelle cliniche, a Milano Treviso, Bologna e Padova. «Ovunque la solita risposta: per ora non esiste una cura contro la Sla. Noi, in base a quel poco che sapevamo per averlo letto su Internet provammo a suggerire ai dottori di prescrivere il famigerato Rilutec e il Rigentex. Ma ci rimbalzavano continuamente tra medico di base, patronati , pool sanitari, specialisti del presidio di Forlì. Un’odissea. Nella tragedia, abbiamo dovuto subire anche l’affannoso iter burocratico per fargli riconoscere l’invalidità. Ci sentiamo sentiti spesso soli e impotenti davanti a questo Morbo e la forma che ha colpito mio padre è sicuramente la peggiore... Non capisce più e tutti i giorni disimpara qualcosa, non riesce a farsi capire. Noi non sappiamo se deve fare l’aerosol altrimenti si affoga dal catarro o quando ha bisogno di camminare o di andare in bagno... Uno strazio». Galdiolo fino a ieri era lo specchio della salute, il fisico dell’eterno atleta a riposo, adesso è lì su una sedia che emette ogni tanto dei vagiti, strani suoni onomatopeici. «Fa male al cuore vederlo tutto il giorno con gli occhi spalancati al soffitto che fissa il vuoto...», continua Alessandro che si è appena sposato e a 31 anni adesso è di fatto a capo di due famiglie, 24 ore su 24. Quello stesso vuoto lo avverte ad ogni istante la compagna di una vita di Giancarlo, la moglie Maria Rosa e l’altro figlio Alberto che gioca a calcio nel Castrocaro e con fatica prova a continuare gli studi, è iscritto a Scienze Motorie. La più piccola di casa Galdiolo, Eleonora studia per diventare infermiera e sperimenta tutti i giorni la sofferenza dei malati. «Siamo distrutti, anche perché molti medici invece di sostenerci ci consigliano di lasciar perdere, che tanto non ha senso curare mio padre che prima o poi dovrà sottoporsi a tracheostomia e verrà alimentato via peg. “Mettetelo in un istituto ci hanno detto”, ma noi andiamo avanti e lottiamo insieme a lui nonostante i tanti problemi», dice Eleonora. «Io cerco di sostenere la mia famiglia anche economicamente – spiega accorato Alessandro – ma con la pensione di calciatore e l’invalidità che gli hanno riconosciuto (480 euro mensili) non ci si fa molto. Stiamo andando incontro allo sfascio finanziario...». Una beffa atroce e il difensore di mille battaglie in campo non può neanche reagire sotto il pressing mortale della malattia. «È colpa del calcio? E chi può dirlo... Noi sappiamo che quando giocava dopo ogni partita non andava neppure a prendere un gelato con la sorella che scendeva a trovarlo a Firenze, perché gli diceva: “Non posso venire, devo correre a fare la puntura...”. Qualcosa gli davano, tanti suoi compagni di quella Fiorentina l’hanno anche detto più volte. Pure alcune di quelle cartelle cliniche della Fiorentina degli anni ’70 che non si sono più trovate fanno pensare male... ». Vorrebbero saperne di più, conoscere almeno qualche scampolo di verità, ma non hanno il tempo per cercarla. Galdiolo ora ha bisogno di cure e di venire fuori da quel tunnel buio in cui è precipitato, e con lui tutta la sua famiglia. «Ci è crollato il mondo sotto i piedi, ma a sostenerci c’è l’amore profondo che proviamo per nostro padre che è sempre stato un uomo speciale. Lo sanno bene quei bambini che allenava e che fino a maggio ha voluto continuare a seguire. Così gli abbiamo comprato una seggiolina per seguire le loro partite a bordo campo. L’abbiamo portato ai tornei di Marradi, Castenaso, San Pietro a Vincoli ed è stato lì dalle 9 del mattino alle 6 di sera a guardare il campo, assente... Poi però appena gli si avvicinano i bambini, lo vedi che sorride, vuole accarezzarli. E allora in quel momento pensi che sia giusto continuare a sperare. Lottare tutti uniti, soffrendo tanto, ma senza arrenderci, è uno dei tanti insegnamenti che ci ha trasmesso e di cui gli saremo sempre riconoscenti».