Agorà

La mostra a Roma. Nadia Fusini: «Virginia Woolf e Bloomsbury, una fucina di parità»

Lisa Ginzburg mercoledì 26 ottobre 2022

Nadia Fusini, autrice di “Wolf A-Z” e curatrice della mostra “Virginia. Woolf Bloomsbury”

Scrivendo i suoi libri di straordinaria, composita, inscalfibile bellezza, Virginia Woolf «si salva», scrive Nadia Fusini nel suo Woolf A-Z (Electa, pagine 208, euro 29,00), originale e accurato prontuario, strumento letterario utilissimo per orientarsi nel corpus woolfiano, più di cento lemmi tenuti stretti al filo che lega inanellandoli tra loro i molti, meravigliosi libri della scrittrice inglese. Si salva, Virginia Woolf, nonostante la sua esistenza certo non si concluda nella salvezza: ma si salva in senso figurato per quanto e per come ama il proprio mestiere di scrivere. Sempre lo segue come si segue una vocazione, mirandola come a un faro, quel faro che è al centro del più perfetto tra i suoi romanzi. Con le stesse intelligenza e passione che ne orientano le ricerche, l’insegnamento, la scrittura (una tenacia e vivacità intellettuale valsele di recente una laurea honoris causa presso l’Università per stranieri di Siena), Nadia Fusini si è decisa dopo la composizione di Woolf A-Z a dedicare a Virginia Woolf una mostra. L’esposizione si inaugura a Roma, nella superba cornice del Palazzo Altemps. E lei, come ideatrice e curatrice (con Luca Scarlini) ne parla con fervore.

A cominciare dal titolo: "Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing life". Perché?

Intenzione della mostra è raccontare non solo una grande scrittrice, ma un intero mondo. Bloomsbury, ovvero un quartiere di Londra, ovvero l’ambiente di scrittori, intellettuali, artisti che presero a frequentare Virginia Stephen (poi Woolf ), la sorella Vanessa (poi Bell) e gli altri fratelli al momento del loro trasloco dalla grande casa di famiglia di Kensington a Gordon Square, in piena Bloomsbury. La fine del realismo e invece il modernismo, un raccontare la vita in un modo nuovo, che sviscera sensazioni e pensieri. Una cerchia di giovani persone accomunate da caratteristiche che mi è parso utile e bello rimettere al centro oggi. Ovvero la profonda fedeltà a sé stessi, ciascuno alla propria vocazione, un alto grado di libertà, la fiducia nella libertà di autodeterminazione dell’individuo.

Virginia Woolf (1882-1941) - -

In questo senso, l’“inventarsi la vita”?

Sì; ho voluto lasciare l’espressione in inglese, una sorta di esortazione rivolta anche al presente. Lo stare insieme che era del gruppo di Bloomsbury, nella gioia più alta, quella dell’amicizia e di un’affinità di spirito, non scaturiva solamente dall’alto spessore morale e culturale dei singoli membri della cerchia. Certo, c’era la giovanissima Virginia, scrittrice dal sublime ed evidente talento, la sorella pittrice, Leonard Woolf viaggiatore e uomo di raffinatissima cultura, Roger Fry, artista e critico d’arte del quale Virginia sarà biografa, John Maynard Keynes, grande economista la cui visione contava un’ampiezza e un’apertura pari alla bellezza della sua prosa, Lytton Strachey fine saggista, molti altri. Ma c’era, prima ancora, il collante che li univa: ovvero il loro pungente, pugnace desiderio di trovare nuovi codici, linguaggi, prismi di lettura capaci di imporsi con la stessa forza che questi giovani sapevano darsi a vicenda, l’un l’altro. Troppo spesso si associa Bloomsbury a un ambiente bohémien, di privilegiati esteti e fondamentalmente sfaccendati. Al contrario, e mi auguro la mostra lo trasmetta, la loro è stata una visione sovversiva ma fortemente improntata alla realtà del lavoro, dell’espressione, del fare. Sono stati una élite, ma una élite etica (contava un’attenzione alla cultura dei Quaccheri), eticamente improntata a una dimensione di parità. Parità di genere, parità sociale ma non vincolata nei ceppi di nessuna “ideologia identitaria”.

Fare e costruirsi. Costruire ogni singola personalità artistica e intellettuale a partire da una componente “poietica”, concreta, quasi artigianale.

La stessa Virginia Woolf cominciò a lavorare molto presto, una volta lasciata la casa paterna buttandosi a capofitto a scrivere recensioni e impegnandosi nel lavoro editoriale. L’indipendenza economica è stata per lei una necessità interiore parallelamente all’essere un’istanza materiale. Con il marito fondarono la casa editrice Hogarth Press e lì anche tutto dall’inizio è stato concretezza, artigianato, massima cura di ogni dettaglio della vita dei libri. Stamparono moltissimi testi, molti fondamentali, La terra desolata di T.S. Eliot, Sigmund Freud, la stessa Woolf, traduzioni di Cechov, Gogol’… l’efficacia del lavorare insieme coincideva per loro con l’esser parte di una koiné in cui ciascuno si sentiva accresciuto dall’intelligenza dell’altro. Society is the happiness of life si intitola una delle stanze della mostra, di nuovo per rimarcare il valore della vita collettiva in tempi come gli attuali, così disgreganti, divisivi, spesso individualisti e solitari.

A proposito di “stanze”, è una delle chiavi dell’esposizione? La cornice del bellissimo di Palazzo Altemps, certo aiuta.

Sì, a cominciare dalla “stanza tutta per sé” di woolfiana matrice, ogni sala è una “stanza” intesa come nodo tematico comunicante con gli altri. Vasi comunicanti erano anche questi amici e sodali artisti e intellettuali. Pronti a disertare la guerra (la Prima) e andare a coltivare i campi. Pronti a scardinare ogni cliché e ogni elitarismo letterario, interrogandosi piuttosto sulle necessità del “lettore comune”. Pronti ad affrontare la portata di ogni scandalo pur di «far entrare la bellezza nelle case» come Roger Fry argomentava nel momento in cui, acquistate ed esposte delle tele di Cézanne così da far conoscere il post-Impressionismo in Inghilterra, diede vita all’Omega Workshop: un laboratorio sperimentale di design che dette lavoro a tanti artisti squattrinati ma fortemente intenzionati a far soffiare un vento nuovo, di libertà, autodeterminazione, felicità, libero arbitrio. Si badi, “stanze”, giammai salotti. Nulla di frivolo o mondano, invece una massima libertà di pensiero, nella gioia della condivisione.

Anche una riflessione condivisa su cosa sia il vedere, il “cogliere”, il raffigurare. Un po’ come per il personaggio della pittrice Lily Briscoe nel romanzo Al faro?

Esattamente. Il tema della rappresentabilità, della “coglibilità” del reale interseca le diverse competenze, unisce le due sorelle Virginia a Vanessa l’una scrittrice l’altra pittrice, più in genere accomuna questi artisti e pensatori interpellati da una medesima necessità di guardare il mondo secondo criteri nuovi, più liberi e ampi.