Agorà

100 anni di jazz. Paolo Fresu e Uri Caine: «Per suonare in due serve fame di dialogo»

Alessandro Beltrami domenica 19 marzo 2017

Paolo Fresu (tromba) e Uri Caine (pianoforte) sul palco (Roberto Cifarelli)

Paolo Fresu & Uri Caine. Uri Caine & Paolo Fresu. Sul palco tra il trombettista di Berchidda e il pianista di Philadelphia, tra i più importanti jazzisti contemporanei, non c’è gerarchia. Un equilibrio semplice e sofisticato a un tempo, come i Two minuettos di Bach che danno il titolo (oltre che aprire e chiudere) al nuovo disco del duo – il terzo dopo Things, 2006, e Think, 2009 – che documenta tre concerti tenuti nel 2015 a Milano. In scaletta un repertorio che da Bach arriva a Dalla passando per la musica vocale del Seicento italiano e Mahler, Gershwin e Joni Mitchell. Per i 100 anni del primo disco jazz, con loro si parla di “essere duo”.

Che ruolo ha il duo nella storia del jazz? E che significa suonare in duo?

Paolo Fresu. «Il duo è una formazione classica e coraggiosa. È per certi versi la formazione più complessa, ma anche la più semplice se il rapporto che si instaura con il collega sul palco è naturale. A volte ci sono anche duo mascherati: Ella Fitzgerald e Louis Armstrong, o Miles Davis e Bill Evans. Anche se alle spalle suonano altre persone quello che conta è l’incontro, e che la musica sia costruita funzionalmente a questo. È l’idea di una comunicazione tra due musicisti che costruiscono un filo conduttore non fragile, che cuce la musica».

Uri Caine. «Il primo disco che ho sentito era pianoforte e corno. E ricordo perfettamente l’ascolto di alcuni dischi come quelli del duo Chick Corea e Gary Burton. Quando ero giovane, nei locali suonavo spesso in duo; con un sassofono, una tromba, un cantante. E ho capito la differenza rispetto a suonare con basso e batteria o con una big band».

PF. «Io ho molti duo: con Uri, con il chitarrista Ralph Towner, con Daniele Bonaventura al bandoneon... Il duo è una formazione che lascia molto spazio alla musica. Il dialogo è molto serrato. Non ci si può mai adagiare perché è sempre importante essere dentro».

UC. «Come pianista devi accompagnare, realizzare la base armonica e il ritmo, e poi risalire e suonare assieme. Quando invece sei, ad esempio, con basso e batteria non ti devi preoccupare dell’accompagnamento. Il ritmo è un parametro che puoi sospendere. Quando sei solo, sei molto più esposto. Sta a me fare in modo che sia possibile suonare insieme. Il mio modo di suonare in questi casi può sembrare “vuoto”, ma se provi ad aggiungere cose ti accorgi che non funziona».

PF. «Uri è una specie di macchina da guerra. Ha swing, ha tempo, ha ricchezza armonica. E un gusto molto simile al mio, a partire dalla passione per la musica classica, la possibilità di mettere assieme mondi diversi. Se in un duo si condividono pensieri e passioni, in qualche modo si parla la stessa lingua».

Un duo può diventare un duello?

UC. «Certo. La musica può essere tutto: amo- re, odio... Di norma evito il rischio, ma ricordo qualche caso complicato, in cui quando si è iniziato a suonare, l’altro aveva cominciato a comportarsi come un pazzo. E allora io ovviamente ho risposto. Può darsi che per chi ascoltava sia stata un’esperienza interessante, meno per me».

PF. «È peggio forse quando due persone che sono vicine non hanno nulla da dirsi. Come quando nei ristoranti vediamo coppie tristi che mangiano in silenzio perché non hanno più argomenti in comune. La musica vive sulla nostra capacità di avere un dialogo».

UC. «È il paradosso per cui due buoni amici possono fare musica noiosa, e due nemici di ottima. È sempre una combinazione di personalità, emozione, stile...».

Caine, riconosce una sorta di italianità nel jazz di Fresu?

UC. «Sì, ma non nel senso in cui si può pensare. Le etichette, come la stessa parola “jazz”, che io stesso uso ma con cui vivo una specie di conflitto, nascono per facilitare: si parla di jazz ebraico, jazz italiano... La realtà è che i musicisti sono tra loro fratelli e sorelle. E il jazz uno spazio dove persone ed esperienze si incontrano. Certo, tutti devono crescere da qualche parte e in qualche modo. Io sono cresciuto in un sobborgo di Philadelphia e la musica che ho ascoltato lì da ragazzo, prima ancora di essere interessato alla musica, è stata importante. E così è stato per Paolo in Sardegna. Detto questo, so che Paolo rappresenta in un certo senso il modo con cui gli italiani vedono la musica. Ma io credo che l’individuo in musica resti più importante dell’elemento sociale. Lo dico per esperienza. Spesso la gente pensa che io, in quanto ebreo, sia un musicista ebreo. Certo, lo sono: ma questo non mi esaurisce né mi identifica in modo totale».

Fresu, lei spesso lavora anche con i loop. Possiamo considerarlo come una sorta di duo con se stesso?

PF. «Per certi versi sì. Quando faccio concerti da solo lavoro molto con l’elettronica, e in quei casi il mio interlocutore sono io stesso, visto però a una certa distanza. È come un’ombra con cui all’improvviso si può dialogare».

Trovate che lo stile del vostro partner sia cambiato in questi anni?

UC. «Se il modo di suonare di Paolo è cambiato, penso sia perché abbiamo affrontato progetti diversi e repertori diversi. Ma il feeling è rimasto immutato».

PF. «Sarebbe delittuoso se dopo 10 anni si suonasse allo stesso modo. Se vado a sentire i dischi precedenti sento diversità, dovute al fatto che oggi ci conosciamo di più e dal fatto che in questo tempo ognuno di noi è cresciuto. Inoltre Uri è un artista poliedrico, che mette in moto linguaggi diversi a seconda della situazione in cui si trova: il piano solo, il trio elettrico, le Goldberg o le Diabelli. Ma quando si è in due sul palco si mette la musica a disposizione dell’altro. Oserei dire che quando siamo in duo il suo suono è leggermente diverso rispetto al solito perché Uri plasma la sua musica rispetto alla mia idea lirica della tromba. Anch’io quando sono con lui suono in modo diverso rispetto ai progetti in cui sono capofila. Qui discutiamo in due qualcosa che fatto con altri assumerebbe altri toni».

Quindi esiste piuttosto un suono proprio del vostro duo?

PF. «Il nostro duo è attento alla melodia, e insieme, attraverso una concezione ritmica sviluppata, dimostra attaccamento alla grande tradizione del jazz; allo stesso tempo però ci accomuna l’idea di rileggere altri repertori: siamo musicisti onnivori, curiosi, non ci poniamo problemi di etichette. Quando lavoriamo sulla grande musica c’è un rispetto filologico e ci siamo noi con il nostro sentire».

C’è stato un momento in cui il jazz si è aperto a tutti i territori musicali, o è sempre stato così fin dall’inizio?

UC. «Tutta la storia del jazz è prendere la musica da tanti elementi. All’inizio fu la “pop music” dell’epoca: suonata in un certo modo, ed ecco il jazz. Così sono cambiati gli stili. Accanto ad approcci più popolari, per reazione si è puntato più sull’elemento concettuale: struttura, forma… Ogni giovane musicista porta nuove influenze. Musica elettronica, folk music. È sempre in evoluzione: non perché è “jazz”, ma perché è musica».

PF. «Non dimentichiamo che il jazz viene dalla musica classica. Nick La Rocca era un musicista siciliano, che si portava a presso la tradizione della musica italiana e della banda».

UC. «È naturale che le persone che hanno ascoltato musica classica mentre crescevano, o musica italiana, o pop music... la usino quando poi, secondo le proprie attitudini, inizino a improvvisare».

PF. «Io non penso che ci sia un repertorio refrattario al jazz. L’idea non è ciò che suoni, ma come lo suoni. In mano a formazioni che esistono da tanti anni e quindi hanno una cifra stilistica forte, penso che qualsiasi materiale possa diventare interessante. Allora tutto è possibile. Spetta all’intelligenza del musicista plasmare un materiale musicale apparentemente lontano, posto che lo sia, e farlo diventare proprio. Prendere la musica del mondo e farla respirare come noi siamo. Specie in un momento storico come questo così complesso in cui il diverso è da respingere, il jazz dimostra metaforicamente che più le distanze sono grandi, più sono le comunioni possibili».