Agorà

Musica. Fortis, anzi no: fortissimo

Massimiliano Castellani martedì 17 luglio 2018

Il sessantatreenne Alberto Fortis (R.Giambelli)

Ha superato il muro dei sessanta, ma Alberto Fortis si presenta all’appuntamento (all’indomani di una «serata da mission impossible») con uno zainetto da millennial, dalle bordature color lillà, come la sedia che cantava all’inizio del 1980. Si muove agile, come quel verso struggente del Duomo di notte «piroette di sabbia/e le guglie del Duomo/differenza tra pietre/e le voglie di un uomo/». Le sue voglie odierne sono le stesse di ieri, quando era la giovane vittima predestinata di Vincenzo (e voleva simbolicamente “ammazzarlo”, quel discografico romano del Micocci): «Fare arte, suonare la mia musica con dignità». Suonare dignitosamente per il proprio pubblico, anche quando alle 9 del mattino gli comunicano che il noto locale milanese dove era fissata da tempo la data (per quella sera) per presentare il nuovo album Alberto 4Fortys, non è disponibile. Giro disperato di telefonate, anzi di messaggi sui social da parte del suo staff per spostare in fretta e furia tutto il popolo dei “fortisiani” in un teatro milanese, rimediato per miracolo, non a caso è la sala del Don Guanella.

Ma qui o altrove, Alberto è grande, come la sua luna. Sul palco si libera al piano e all’armonica a bocca, e anche in formazione ridotta (splendida la vocalist Mary Montesano) l’energia, la creatività e la capacità di improvvisazione è sempre quella degli esordi, 1979.

«La mia passione per la composizione musicale e la ricerca meticolosa nell’uso delle parole per i testi non credo che negli anni sia cambiata di una virgola. Anche una canzone nuova come Venezia ha affinità elettive incredibili con Duomo di notte, entrambe sono pregne di significati e chi le ascolta può continuamente a scoprirne di nuovi, può indagare tra le righe, come insegna Dante nella Divina Commedia, la mia grande passione poetica con Leopardi».

Partiamo dal liceo e dalla sua gioventù a Domodossola.

«Anni di formazione dura, intensa, un imprinting fortissimo grazie agli studi fatti al prestigioso Collegio Rosmini. A Domodossola ho conservato la casa di famiglia e da lì mi porto dentro tutte le inquietudini, lo sradicamento e anche la voglia di ricerca che conosce bene solo chi è nato in una terra di frontiera come la mia».

Da lì a Genova, studi in Medicina (da figlio d’arte, papà medico) e poi la gavetta e lo scontro con Vincenzo per pubblicare il primo album. Ma oggi chi è il Vincenzo che prova a frenare il talento?

«È un soggetto sistemico, più raffinato, sofisticato. Nell’era multimediale e della musica liquida, non è più nemmeno il discografico che sbarra il passo a un giovane, il quale vive nell’illusione del web che sì facilita la visibilità ma al tempo stesso lo rende prigioniero in una jungla fitta di rami che hanno spezzato la catena produttiva e azzerato le competenze professionali».

Siamo al “si stava meglio quando si stava peggio”?

«Si stava bene quando ognuno sapeva fare il suo mestiere. Nel 1979 il direttore artistico della Polygram, Claudio Fabi, in un anno tirò fuori artisti come il sottoscritto, la Pfm, Teresa De Sio, Fabio Concato. E la presidenza, da un roster di 10-15 cantanti validi operava una ulteriore cernita che era puramente meritocratica. Oggi il futuro di un cantante si gioca tutto sui “likes” del web e questi condizionano le scelte di radio e tv che antepongono l’immagine, la logica del sensazionalismo al contenuto artistico. Ma occhio, la sofisticazione diventa mistificazione, e presto si ritroveranno in mano solo tanti contenitori vuoti».

Tradotto, il cantante, il musicista puro, più che un'arte sta diventando utopia?

«Ai giovani dico sempre che questo è un mestiere faticoso, una mission se lo vuoi far bene. L’importante è non scoraggiarsi alle prime porte in faccia. Il mio primo album era stato bocciato da tutti i consulenti editoriali fino a quando non l’ascoltò il nuovo direttore della Polygram, un francese laureato alla Sorbona il quale mi disse: “Fortis il suo disco è molto bello, le proponiamo un contratto per i prossimi cinque album che vorrà fare con noi”. Il problema di oggi è trovare sensibilità del genere, capaci di ascoltare e di programmare sul lungo periodo».

La musica usa e getta di questo millennio premia di più quei «rapperini», cito Fortis.

«Così come mi piace ricordare che nel 1981 ho inciso il primo pop-gospel “Settembre”, con altrettanto piacere rivendico la paternità di uno dei primi rap“Plastic Messico” dell’83. Trovo Caparezza bravissimo, così come dell’ultima generazione apprezzo Ghali, ma non amo la maggior parte di quei “rapperini” che praticano il genere, perché l’hanno svilito a provocazione sterile e a trend della volgarità. E sinceramente mi dispiace che il brutto conquisti milioni di likes, un Paese come il nostro dovrebbe premiare la bellezza e difendere l’arte che ovviamente contempla la bella musica».

A proposito di bellezza, dal palco del Don Guanella l’omaggio a Milano, sua città adottiva, è stato accolto da un’autentica ovazione.

«Sono fiero di questa Milano che ha capitalizzato al meglio il dopo-Expo ed è tornata ad essere una capitale europea. Non solo moda e affari, il mondo sta riscoprendo la sua grande bellezza di città d’arte piena di storie da raccontare e anche da cantare».

Una città che per arrivare fin qui ha dovuto combattere quell’eterna lotta Tra demonio e santità, titolo di uno dei suoi album più celebri.

«Il demoniaco, il male è qualcosa che da credente percepisco anche nella forza oscura dell’economia e del denaro che vince su tutto. Viviamo in un’epoca di “neofeudalesimo” in cui la ricchezza è nelle mani di pochi e sempre più mal redistribuita. La santità è insita nella nascita e nella non contaminazio- ne e questa conduce sulla via della dignità che è lastricata di codici, comportamentali, umani e professionali, che vanno rispettati. E poi, noi che abbiamo il privilegio di avere di più, dobbiamo ritornare indietro un po’ dei doni che ci sono stati dati».

Parole sante e anche un po’ da leader politico illuminato.

«No guardi, fin da giovane sentendomi dare dell’uomo di destra da quelli di sinistra e viceversa, ho sempre diffidato dell’appartenenza e della militanza. La mia coscienza politica si è esercitata come spettatore delle cose che mi stimolano e mi interessano e con cui sono in sintonia. L’arte, poi, ha il diritto-dovere di essere superpartes e lo stesso mi aspetterei dalla politica che va premiata solo quando agisce per il bene comune».

A proposito di premi, quali sono quelli che ha ricevuto e di cui va più fiero in questi 40 anni di cantautorato?

«Potrei dire il riconoscimento dato al Duomo di notte inserita nella classifica delle migliori cento canzoni italiane, o l’aver suonato negli studi di Abbey Road con sir George Martin, mitico produttore dei Beatles che mi cambia il microfono e mi fa: “Ecco, ora canti la sua Settembre”. Incredibile no? Ma il premio di cui vado più fiero è l’Ambrogino d’oro. Sono ambasciatore Unicef presso i bimbi della popolazione Navarro e ogni estate la passo con loro. Per me è nutrimento spirituale scoprire sempre di più la vicinanza tra territori opposti come le due “indianità”: quella americana e quella dell’India asiatica dove vie il mio bambino».

C’è un piccolo Fortis in India?

«È il mio figlio adottivo di 10 anni che vive in un istituto nel Kerala, India meridionale. Gli sto dando ciò che per nascita non poteva avere: un tetto, un'istruzione e tutto l’amore che posso da qui, da “padre” che ha una vita nomade e che non potrebbe garantirgli una famiglia stabile... sono un artista».

Un artista disposto anche a salire sul palco di Sanremo?

«Certo che sì. Oggi per i giovani ci sono i talent mentre per chi ha una storia e una carriera come la mia la meta è quella, il Festival di Sanremo. Il direttore artistico (Claudio Baglioni) mi conosce da sempre e mi apprezza... Confesso: lo scorso anno ho rischiato di esserci su quel palco. Poi non è andata... Sarebbe bello se quel brano venisse riascoltato e preso in considerazione. Sono cittadino onorario di Diano Marino - sorride - Credo disti 30-40 km da Sanremo...».