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Letteratura. FOREST: «Scrivere è testimoniare»

Alessandro Zaccuri mercoledì 9 settembre 2015
Il gatto è vivo, il gatto è morto. Non è un gioco di prestigio e neppure un cartone animato, ma un celebre paradosso della fisica quantistica. Le cui leggi, sosteneva già negli anni Trenta lo scienziato Erwin Schrödinger, non sono immediatamente traducibili nell’esperienza quotidiana. Se così fosse, dovremmo immaginare un marchingegno capace di mantenere il famoso gatto in una condizione che non è vita né morte, ma un’ineffabile compresenza di entrambe. Molto citato da narratori e teorici della narrazione, Il gatto di Schrödinger è il titolo dell’ultimo libro di Philippe Forest (Del Vecchio, traduzione di Gabriella Bosco, pagine 320, euro 15,50). Che è un teorico della narrazione, appunto, ma anche un narratore. Domani alle 14,30 Forest sarà al Palazzo Ducale di Mantova, per dialogare con Luca Scarlini sulle prospettive del romanzo filosofico in uno degli incontri più attesi del Festivaletteratura, la cui diciannovesima edizione prende il via oggi. Anche in Italia, infatti, lo scrittore francese è seguito da una comunità di lettori sempre più numerosa, che ha imparato a conoscerlo fin dal suo primo romanzo, Tutti i bambini tranne uno, apparso originariamente nel 1997 e portato in Italia nel 2005 da Alet, piccola e intelligente casa editrice padovana che nel frattempo ha interrotto l’attività. Al centro di quel libro, come dei successivi, la figlia di Forest, Pauline, morta di cancro a soli quattro anni. Una ferita di cui anche Il gatto di Schrödinger conserva la cicatrice, in un continuo alternarsi di autobiografia, speculazione filosofica e riflessione scientifica. Come se i diversi linguaggi non fossero che gli strumenti di una stessa ricerca. «Sì, la penso così – risponde Forest –. Si tratta di confrontarsi, ogni volta,  con l’enigma del mondo. Ogni disciplina lo fa nel modo che le è proprio. Di solito si tende a metterle in contrapposizione: l’arte e la letteratura mostrano, si dice, mentre la scienza e la filosofia dimostrano. Le prime fanno domande, le seconde danno risposte. La vera scienza e la vera filosofia, invece, sono contraddistinte da un atteggiamento di inquietudine e di perplessità del tutto simile a quello dell’arte e della letteratura». In questione, dunque, c’è sempre il nostro rapporto con la realtà? «Nei miei saggi e nei miei romanzi ho ripreso un’idea della teoria della letteratura oggi trascurata, ma che in Francia è stata formulata in particolare da Georges Bataille e da Jacques Lacan. Il punto sta nel distinguere la “realtà” dal “reale”. La “realtà” è ciò che può essere oggetto di rappresentazione; il “reale”, al contrario, è ciò che sfugge alla rappresentazione, ciò che la perfora ampliando l’area del non simbolico, dell’inintelligibile. “Il reale è l’impossibile”, afferma Lacan. Il romanzo, dal mio punto di vista, risponde all’appello che questa impossibilità ci rivolge. Ma il “reale” non è un privilegio esclusivo degli scrittori: è il dato costitutivo dell’esperienza umana. Direi che corrisponde alla prova del lutto e del desiderio, ossia alla prova che ci rende davvero umani». Lutto e desiderio, infatti, sono il tema dei suoi romanzi. «Di tutti i romanzi, quindi anche dei miei. A partire da Tutti i bambini tranne uno la componente del lutto è essenziale, ma spesso, e in particolare nell’Amore nuovo, cerco di mostrare come desiderio e lutto siano inseparabili nella misura in cui chiamano in causa il rapporto impossibile e necessario con qualcosa di cui continuiamo a sentire la mancanza. Motivo per cui Il gatto di Schrödinger  è anche un romanzo d’amore». L’incertezza tra vita e morte è una forma di speranza? «Forse, se così si vuole intenderla. Ma non nel senso in cui la scienza o la religione sostengono che chi è morto può tornare in vita. Da parte mia, non è quello in cui credo. Il paradosso attribuito a Schrödinger, del resto, non corrisponde affatto alla lezione che lo scienziato voleva impartire attraverso il suo esperimento mentale. Ironia vuole che il nome di Schrödinger sia legato a una teoria che lui non sosteneva affatto e di cui voleva semmai dimostrare l’assurdità. Eppure, a dispetto delle intenzioni del suo inventore, la favola del gatto continua a esercitare il suo fascino, perché lascia intendere che ogni realtà può esistere simultaneamente in forme opposte. Ogni presenza è nello stesso tempo un’assenza. E ogni assenza è una presenza, sia pure in un universo parallelo...». Lo scrittore è anzitutto un testimone? «Per me sì. Ma quale sia l’oggetto della testimonianza, l’ho capito meglio grazie aI sommersi e i salvati di Primo Levi. Partendo dall’esempio gigantesco e assoluto della Shoah, Levi ci spiega come la testimonianza dei sopravvissuti sia impossibile e insieme indispensabile. Sono convinto che questa verità abbia un valore universale, che trova particolare applicazione nella testimonianza letteraria». E la questione degli universi paralleli? «Non penso che esistano nella forma che alcuni fisici hanno ritenuto di dedurre dall’equazione di Schrödinger. Però la metafora è formidabile, tant’è vero che la adopero nel libro. L’immaginazione, e in particolar modo l’immaginazione romanzesca, ci permette di inventare vite diverse da quella che stiamo vivendo. Ma la realtà non corrisponde mai nella somma delle finzioni che costruiamo a partire da essa. Il gatto di Schrödinger prende spunto da un episodio minuscolo: un gatto entra nel giardino di casa mia. Metto in relazione questo fatto con il racconto della mia vita così come l’ho sviluppato nei romanzi precedenti e intanto rielaboro l’episodio attraverso l’immaginazione, ampliandolo di modo che il nuovo romanzo assorba ogni altro racconto letterario e leggendario». A proposito della sua opera si parla spesso di autofiction... «Sì, vengo presentato come uno degli autori più rappresentativi dell’autofiction alla francese. Niente in contrario, è una formula pubblicitaria come un’altra. Ma questa non è mai stata la mia intenzione. Ho praticato l’autofiction di tanto in tanto, certo, e sono convinto che la letteratura debba fondarsi sull’esperienza dell’autore. Ma non penso che debba ridursi a una specie di neonaturalismo intimista, quasi una versione più o meno letteraria dei reality televisivi, come purtroppo accade nella maggioranza dei casi. L’obiettivo del romanzo sta nell’unire ciò che esiste di più personale a ciò che esiste di più universale, facendo ricorso a tutte le risorse di cui uno scrittore dispone: autobiografia, racconto, poesia, filosofia. Solo così può accadere che il lettore, mentre legge la storia dell’autore, si ritrovi a leggere la propria storia».