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Cinema. «Agnus Dei», storia di violenza e speranza in un monastero polacco

Alessandro Zaccuri mercoledì 9 novembre 2016

I bambini nascono, alla fine. E con loro nasce una comunità. Anche in Agnus Dei di Anne Fontaine (il film, presentato ieri a Roma, sarà nelle sale italiane dal 17 novembre) accade quello che accadeva negli ormai numerosi racconti cinematografici di ambientazione monastica, conventuale o comunque religiosa susseguitisi negli ultimi anni. Il grande silenzio di Philip Gröning (2005), per esempio, o Uomini di Dio di Xavier Beauvois (2010), nel quale si ricostruiva il martirio dei trappisti di Tibhirine, in Algeria. Perfino nelle pellicole più controverse, come Magdalene di Peter Mullan (2002) o Il caso Spotlight di Tom McCarthy (2015), a prevalere non era la vicenda del singolo personaggio, ma una dimensione di coralità che si traduceva nella ricerca di una ricomposizione. Al punto che, per paradosso, il film che più di ogni altro ricorda Agnus Dei per atmosfera e intensità, e cioè Ida di Pawel Pawlikowski (2013), è quello che più se ne distacca. A dispetto dell’identità quasi perfetta di ambientazione, oltretutto: la Polonia dell’immediato dopoguerra, un convento femminile insidiato dall’avanzata del comunismo.

Ma se la novizia Ida se ne partiva, tutta sola, alla ricerca della propria identità, in Agnus Dei nessuna delle benedettine pensa di allontanarsi dal monastero in cui si è consumato un dramma pressoché inimmaginabile. I soldati sovietici sono entrati, hanno abusato delle donne, se ne sono andati e poi sono tornati, più volte, per violentarle ancora. Adesso alcune di loro sono incinte. Tutte sono sconvolte, in preda alla vergogna e al più angoscioso dei dubbi: possibile che Dio abbia voluto permettere questo scempio?

Tocca alla madre badessa (impersonata da Agata Kulesza, che già ricopriva un ruolo fondamentale in Ida) escogitare una soluzione, che purtroppo non va al di là della consegna del silenzio. Nessuno deve sapere che cosa è successo, nessuna delle religiose deve affezionarsi alla creatura che porta in grembo. Appena nati, i bambini verranno affidati alle famiglie delle puerpere, dove cresceranno nel più prudente riserbo. Questo, almeno, è quello che la badessa lascia intendere. Ma dai parenti delle suore i neonati non arriveranno mai. Vengono lasciati sotto una croce, nel cuore della campagna assiderata. Affidati alla Provvidenza, sostiene la badessa, a sua volta divorata da una malattia venerea contratta in seguito allo stupro. La sua non è ipocrisia, ma la degenerazione di una fede che, nel momento della prova, si asserraglia in se stessa e distoglie lo sguardo dalla realtà.

Esattamente il contrario di quello che fa la crocerossina Mathilde (interpretata da Lou de Laâge), che al monastero arriva per caso, quasi trascinata da una suorina in ansia per la situazione, e subito comprende che quelle donne non possono essere abbandonate alla loro sofferenza. Mathilde sa poco o nulla del cattolicesimo, cresciuta com’è in una famiglia di comunisti francesi. Quando si parla di fede, però, si sente ugualmente a suo agio, perché in qualcosa – ne è convinta – bisogna pur credere. Lei stessa crede nella vita, e nella medicina che permette di custodirla. Nel monastero Mathilde trova un’alleata, suor Maria (l’attrice Agata Buzek), che la aiuta a conquistarsi la fiducia delle consorelle, il cui pudore è talmente radicato da rendere pressoché impossibile, sulle prime, una semplice visita medica.

Sarà proprio Mathilde a escogitare una via d’uscita, ma l’impressione è che senza l’appoggio di suor Maria, senza l’abbraccio di tutte le religiose e addirittura senza l’irriducibile opposizione della badessa quell’idea non le sarebbe mai venuta in mente: rifondare il monastero fondando una comunità, radunare gli orfani tra quelle mura profanate così da rendere plausibile, se non naturale, la presenza dei nuovi nati. È la vita che vince, è la fede che, grazie alla speranza, non viene sconfitta. I fatti storici ai quali Agnus Dei si ispira sono ancora più crudi della trama del film. Provengono dalle memorie del giovane primario dell’Ospedale francese di Varsavia durante la guerra, Madeleine Pauliac, morta in un incidente nel 1946. Gli stupri seriali delle truppe sovietiche ci sono noti attraverso la sua testimonianza. «Ma oggi la situazione non è cambiata – ha sottolineato ieri a Roma Anne Fontaine –. La violenza sulle donne è un’arma di guerra tanto diffusa quanto inaccettabile, una barbarie che ancora non si riesce a estirpare». Per realizzare Agnus Dei (la sceneggiatura è firmata da Sabrina B. Karine e Alice Vial) la regista ha cercato di riscoprire le proprie radici cattoliche, ha chiesto la consulenza di diversi religiosi, ha frequentato un paio di comunità benedettine e in una di queste ha anche trascorso un periodo in condizioni di vita simili a quelle delle novizie.

Il risultato è un film di grande equilibrio, che riesce ad affrontare con delicatezza tutta femminile un tema altrimenti terribile. Nessun giudizio, neppure per la madre badessa, che di sicuro resta il personaggio più contraddittorio e controverso. Una prospettiva apprezzata anche da suor Carmen Sammut, presidente dell’Unione internazionale delle Superiori generali: «La scelta di spiritualità di queste suore è un modo di essere madre al servizio della vita», ha detto nel corso dell’incontro romano di ieri. Da parte sua, la storica Lucetta Scaraffia ha ricordato casi recenti e recentissimi, dalla guerra in Bosnia agli abusi in Asia e Africa, nei quali le religiose vittime di violenza sono state emarginate, escluse e respinte. «Il miglioramento della condizione della donna nella Chiesa passa anche e principalmente da vicende estreme come queste – ha aggiunto –. È una vergogna che dev’essere cancellata. Ma prima ancora deve venire alla luce». Occorre il coraggio della denuncia, certo, e occorre anche una comunità pronta ad accogliere. Un abbraccio che Agnus Dei mostra molto bene.