Agorà

Intervista. La scrittrice tunisina Filali: l'islamismo? È postcoloniale

Daniela Pizzagalli venerdì 28 agosto 2015
«O uatann è una parola araba generalmente tradotta come 'patria', ma contiene un’ampia gamma di significati, che dall’indicare il paese d’origine si focalizza fino a definire i luoghi più cari, il focolare, e addirittura l’interiorità di una persona». Così la scrittrice tunisina Azza Filali spiega il titolo del suo romanzo Outann. Ombre sul mare (Fazi, pagine 316, euro 17,50), che presenterà il 18 settembre al festival Pordenonelegge. È il suo primo romanzo tradotto in italiano, ma la scrittrice sessantatreeenne è molto nota in patria: è medico di professione, ha anche una laurea in filosofia presa a Parigi e ha pubblicato saggi e romanzi insigniti di numerosi premi.  «Ouatann per la protagonista Michkat, un’avvocatessa quarantenne che lascia il suo lavoro a Tunisi perché non vuole adeguarsi a un sistema corrotto, è la villa di famiglia sul mare, un luogo dell’anima in cui può ritrovare i suoi sogni infantili. Il nome Michkat è fortemente simbolico, perché allude all’anima umana: è tratto da una sura del Corano e indica una lampada che illumina uno spazio chiuso. Nel romanzo, è solo lei a parlare in prima persona e, interagendo con gli altri personaggi, li mette in luce». La dimora isolata che inaspettatamente riunisce persone molto diverse è un topos letterario di antica tradizione, e si carica di significati metaforici. Qui si tratta di una villa bellissima ma in stato di degrado, che un avido custode affitta abusivamente a un condannato per truffe in appalti pubblici e l’innocente proprietaria si trova invischiata suo malgrado. La metafora rappresenta la Tunisia stessa? «Sì, è il mio paese, una casa trascurata in cui una a una tutte le lampadine si fulminano. E bisogna aggiungere che nel giardino inselvatichito c’è la tomba del primo proprietario, monsieur Jacques, che rappresenta il non lontano passato del Protettorato francese, che ha lasciato molte tracce nel paesaggio, sia naturale che umano». Tra le tracce più importanti, quella della lingua. «È sintomatico che l’uso del francese sia diminuito in favore dell’arabo a partire dalla fine degli anni 80, con la crescita della popolazione islamista. L’uso della lingua araba ha assunto una connotazione religiosa». I conti con il colonialismo non sono ancora chiusi? «Non è sufficiente che i conquistatori lascino un territorio perché gli autoctoni si rimettano a vivere come se niente fosse accaduto. In realtà non si rimetteranno mai a vivere come prima. Noi oggi viviamo in un’era postcoloniale in cui è particolarmente difficile per un tunisino fare come se la generazione dei suoi genitori o nonni non fosse stata immersa in una doppia cultura. Tra il 1850 e il 1950 i tunisini hanno vissuto a stretto contatto con francesi, italiani ed ebrei. Questa coabitazione ha permesso a ciascuno dei gruppi di conoscersi e mescolarsi, tanto che nella lingua araba sono apparsi tanti termini di origine francese e italiana». Anche l’uso dell’hijab al posto del tradizionale sefsari, cui accenna nel romanzo, riflette l’islamizzazione in atto? «Il passaggio dal sefsari all’hijab indica un cambiamento di vestiario ma soprattutto un cambiamento di mentalità e di significato: il sefsari è un lungo velo, tipicamente tunisino, che ricopre il corpo. Non ha connotazioni religiose ed è anzi seducente, perché quel tessuto bianco accarezza le forme femminili e le valorizza. L’hijab invece è di solito considerato come l’attestazione d’un ritorno a un islam (mal) interpretato come una religione nella quale la donna deve nascondere le sue attrattive. In realtà, questo resta a livello teorico, perché nelle strade di Tunisi circolano donne con jeans e top aderenti e un foulard in testa che d’islamico ha solo il nome. Dirò di più: la decisione di mettere il velo è spesso lontana da motivazioni religiose. Tante ragazze lo mettono per mimetismo, per fare come l’amica o la vicina, oppure per sviare la sorveglianza del padre o di un fratello e poter uscire senza problemi. In molti casi, quindi, più che una scelta religiosa diventa un mezzo per circolare più liberamente». Il tema della scelta pervade tutto il romanzo: ogni personaggio si trova a interpellare la propria coscienza, soprattutto nell’alternativa tra emigrare o restare. «Prendere coscienza di sé è un esercizio difficile, a volte si trova al termine di strade sbagliate. Quanti passi perduti per arrivare all’essenziale! È vero che questo romanzo descrive l’itinerario spirituale d’un certo numero di personaggi: alcuni sono all’inizio del cammino, altri, come Michkat, hanno già compiuto il tratto più importante della traversata. Occorre del tempo, ma non basta. La presa di coscienza può non avvenire mai, come un frutto che si dissecca e muore sull’albero». Il romanzo si svolge poco prima della “rivoluzione dei gelsomini” e fa intuire le tensioni crescenti, tra la politica corrotta, la spinta all’emigrazione clandestina e la crescente islamizzazione, per cui il paese sembra soffocare. «Sì, poco prima della rivoluzione il paese ribolliva nel silenzio. Poi, nei cinque anni della rivoluzione le parole si sono liberate e hanno invaso lo spazio pubblico». Ma oggi, dopo gli sconvolgenti attentati terroristici, com’è la situazione? «Il terrorismo islamico è ovviamente il problema politico fondamentale, ma finora non ha avuto ripercussioni appariscenti sullo stile di vita dei tunisini. I festival dell’estate si sono svolti alla grande, le spiagge e gli alberghi sono pieni di tunisini e algerini. Dunque per il momento uno straniero sbarcato a Tunisi non si accorgerebbe di essere in un paese in stato d’allerta, se non per le maggiori misure di sicurezza».