Agorà

L'anticipazione. Favre, la mistica nella vita quotidiana

Antonio Spadaro sabato 14 dicembre 2013
La mia copia del diario spi­rituale di Pietro Favre, detto Confessioni o Me­moriale, è un volume in­giallito e dalla copertina ormai logora, pubblicato nel 1980. Non ricordo e­sattamente da quanti anni porto con me questo libro, ma è da tanto tem­po. L’ho letto nel corso degli anni di formazione come gesuita e l’ho fini­to di recente. Favre non è uno dei ge­suiti più noti.
Tutti conoscono Fran­cesco Saverio, il secondo compagno di Ignazio di Loyola, ma pochi co­noscono Pietro, savoiardo, che inve­ce è stato il primo. Forse per questo mi ha affascinato: il suo essere stato il primo e il suo essere rimasto nel­l’ombra. Senza Pietro, la Compagnia di Gesù non ci sarebbe. Ciò che mi ha attratto di più è stata la sua espe­rienza di amicizia profonda con I­gnazio, che allora era stato definito dal teologo spagnolo rigorista Pedro Ortíz «uno stravagante spagnolo che fomentava il disordine in maniera inquietante».
Scrive Favre nel suo Memoriale : «Vi­vevamo sempre insieme, riparten­do la camera, la mensa, la borsa; e poi egli mi era insegnante di vita spi­rituale, dandomi possibilità di a­scendere alla conoscenza della vo­lontà divina e della mia propria. Co­sì fu che divenimmo una cosa sola nei desideri, nella volontà e nel fer­mo proposito di scegliere la vita che ora teniamo tutti noi, i quali faccia­mo o faremo parte di questa Com­pagnia, di cui io non sono degno». Immaginavo questi due uomini: stu­denti all’Università di Parigi che con­dividevano la stanza in affitto; uno basco, uno savoiardo.
La loro profonda amicizia, nata mentre il poco più che ventenne Pietro aiuta­va il quasi quarantenne Ignazio a ca­pire Aristotele e i filosofi scolastici, è il primissimo inizio di ciò che sareb­be stata la Compagnia di Gesù [...]. Favre visse il clima fluido e burra­scoso della prima metà del Cinque­cento parigino e per questo è porta­tore di una sensibilità moderna. In­carnò un’apertura mentale e spiri­tuale nei confronti delle sfide dell’e­poca, soprattutto la riforma prote­stante. Se alcune sue regole ecume­niche fossero state accolte e messe in pratica al suo tempo, forse la sto­ria religiosa dell’Europa sarebbe sta­ta diversa. Non era un sognatore, ma un misti­co di profonda dolcezza.
L’espe­rienza più incisiva dei suoi anni di formazione fu rappresentata dal­l’incontro con il pensiero della tra­dizione renano-fiamminga, avve­nuto attraverso la frequentazione della certosa di Vauvert. Ma leggen­do il suo Memoriale , un diario inte­riore appunto, si capisce che la sua mistica ha a che fare con la vita quo­tidiana, si spende nei dettagli, si ap­plica ai sentimenti che accompa­gnano i momenti della vita: è piena familiarità con Dio.
Favre si rivela maestro sia nell’impegno e nel coin­volgimento esteriore, sia nel «di­scernimento degli spiriti»: non solo come grande psicologo, ma come autentico ricercatore della volontà di Dio [...]. La vita interiore per lui è «sentire e gustare le cose interiormente», co­me scrive Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Nella sua breve vita, Pie­tro ha gustato l’esistenza, ha avver­tito il dolce e l’amaro, ha provato «consolazione» e «desolazione», ma ha tutto vissuto con l’anima. E tutto il suo mondo era animato, vivace di «mozioni spirituali».
Altro motivo di fascino: il suo essere pellegrino in­stancabile, camminatore nato. Ap­profittava dei lunghi viaggi, di solito fatti a piedi, per disseminarli di pre­ghiera e di attività sacerdotali, mo­strando così, anche a noi oggi, come si può congiungere una vita attiva straordinaria con una profonda u­nione con Dio. Questo Favre dolce mistico pellegrino, instancabile camminatore dalla grande familia­rità con Dio, peculiare coincidentia oppositorum, mi colpiva perché non riuscivo ad afferrarlo del tutto. E non riesco a farlo tuttora.
Quando dunque, durante la mia in­tervista di fine agosto 2013, chiesi a papa Francesco quale fosse il suo ge­suita preferito, ho avuto un sobbal­zo quando ho sentito il nome di Pie­tro Favre. Ho scoperto così che l’al­lora padre Jorge Mario Bergoglio, provinciale dei gesuiti dell’Argenti­na, aveva persino commissionato un’edizione del Memoriale a due ge­suiti specialisti, Miguel A. Fiorito e Jaime H. Amadeo. Ho saputo che la sua edizione preferita è quella a cu­ra di Michel de Certeau. Tra l’altro il Papa cita un pensiero di Favre nella sua prima esortazione apostolica: «Il tempo è il messaggero di Dio» (E­vangelii gaudium 171).
Perché al Papa piace particolarmen­te il primo compagno di Ignazio? Lui mi ha risposto sostanzialmente fa­cendo una lista di ragioni: «Il dialo­go con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una cer­ta ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discerni­mento interiore, il fatto di essere uo­mo di grandi e forti decisioni e in­sieme capace di essere così dolce, dolce…». Nelle sue parole rileggevo la mia e­sperienza del Favre, rimasta allora sostanzialmente incompleta, inter­rotta anche nella lettura del suo dia­rio. E nello stesso tempo capivo quanto Favre sia stato e sia tuttora davvero per lui un modello di vita.
Il 14 giugno 2013, nel suo discorso al­la redazione de “La Civiltà Cattoli­ca”, papa Francesco aveva dato ai re­dattori come consegna tre parole chiave: dialogo, discernimento, fron­tiera. Sono le parole chiave della vi­ta di Pietro Favre, unite a una infini­ta dolcezza di tratto che ha conver­tito molti, più di tante parole. Michel de Certeau definisce Favre semplicemente il «prete riformato», per il quale l’esperienza interiore, l’e­spressione dogmatica e la riforma strutturale sono intimamente indis­sociabili. Mi sembra di capire, dun­que, che papa Francesco si ispiri pro­prio a questo genere di riforma. Favre è convinto che è al livello del­la complessità dei sentimenti e de­gli affetti spirituali – in cui l’uomo impara a dialogare con Dio e a sen­tirne il mistero – che si prendono le grandi decisioni, anche quelle «strut­turali ».
Per Favre Dio agisce e opera nel cuore dell’uomo trasformando­lo. La fiducia nell’azione di Dio nel fondo dell’essere dell’uomo lo di­stingue da Lutero, troppo attento al suo stato di peccatore per credere a questa trasformazione interiore. Fa­vre vede sbocciare la presenza di Dio dovunque; Lutero sempre attende la sua venuta, che unica può salvare dalla dannazione. Ma trasformazio­ne interiore non significa spirituali­smo. Lungi da Favre, come da Ber­goglio, quella che il Papa stesso ha definito «la costante tentazione del­le tendenze pseudomistiche dell’e­sistenza cristiana». Lungi da en­trambi «quella sorta di cristianesi­mo spirituale che stava perdendo il contatto con la quotidianità e la vi­ta concreta».
Per Favre come per Bergoglio vale ciò che ha scritto Ignazio di Loyola: Dio si comunica a ognuno di noi con «mozioni» interiori, «muove e attira la volontà». Questo spazio di incontro e di attrazione, ricco di af­fetti, non si contrappone affatto al­la ragione né alla gestione della vi­ta e ai suoi progetti pratici, ma al contrario li anima: «Il cuore coniu­ga l’idea con la realtà», ha scritto tempo fa l’allora cardinal Bergoglio. L’esperienza di Favre va dunque meglio compresa e studiata per ca­pire lo stile e il modo del governo di papa Francesco.
Anticipazione da: Antonio Spadaro, Pietro Favre. Servitore della consolazione, Ancora, p. 144, € 17.