Agorà

Padova. Fattori e l’istante metafisico

MAURIZIO CECCHETTI venerdì 11 dicembre 2015
Per quanto ci si sforzi, soprattutto di questi tempi dove sembra che l’unica pittura che garantisce un buon incasso a una mostra sia quella impressionista; per quanto ci si sforzi, non si riesce a far passare quell’idea che sta a cuore a molti, soprattutto ai mercanti, che il nostro Ottocento non è paragonabile a quello francese, e così i macchiaioli non sono gli “impressionisti italiani” come insinuava sibillino e dubitativo il sottotitolo di una mostra allestita nel 2013 al Museo dell’Orangerie. Parigi, dunque. “Les Macchiaioli”, già questa chimera alla francese (da pronunciarsi con l’ultima i accentata) aveva qualcosa di stucchevole. Era una mostra tutta italiana, italiani i quadri (e i loro proprietari, musei o collezionisti); italiani i saggisti del catalogo, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi (con la cosa mondanissima di affidare la prefazione allo scrittore-magistrato Giancarlo de Cataldo); italiana anche la bibliografia: praticamente nessun francese che avesse trovato il tempo di scrivere sui Macchiaioli. La cosa puzzava: atto di cortesia o sottovalutazione? La questione è irrilevante. I Macchiaioli a Firenze facevano “base” al Caffè Michelangiolo, al 21 di via Cavour, dove oggi si può leggere una lapide che dice: «In questo stabile ebbe sede il Caffè Michelangiolo geniale ritrovo d’un gruppo di liberi artisti che l’arguzia fiorentina soprannominò Macchiaioli le cui opere nate tra le lotte politiche e gli eroismi guerrieri del Risorgimento nazionale perpetuarono il lume della tradizione pittorica italiana rinnovandone gli spiriti ». C’è tutto ciò che dev’esserci; un testo preciso, che colloca i Macchiaioli nella storia della pittura italiana, e non sulle orme di quella francese. Per cui, con buona pace dei mercanti dell’Ottocento italiano, si dica una volta per tutte che Macchiaioli e impressionisti c’entrano tra loro come i cavoli a merenda; esiste, del resto, una categoria di “impressionisti italiani” gli Italien de Paris, che a quella pittura s’ispirarono e ne furono, a modo loro, imitatori o epigoni, certo non i deuteragonisti (caso mai, sfruttarono la nebulosa della cometa francese per affermarsi). Se poi si volesse notare che, nei suoi viaggi in Italia giovanili, anche il grande Degas fece qualche volta una sosta al caffè fiorentino, conoscendo tra gli altri Diego Martelli, sarà bene non dimenticare che, quando ormai era diventato il pittore che tutti sappiamo, una volta che qualcuno gli parlò dell’en plein airDegas ironico e stizzito (gli accadeva spesso) rispose: «troppe correnti d’aria nel plein air », o spifferi, se volete, nell’impressionismo. A contare quanti si mettono in fila oggi non appena viene pronunciata la parola magica, verrebbe da pensare che siano molti quelli che il giorno dopo accusano la classica inchiodatura da colpo della strega o il torcicollo. Ma questo lo lasciamo ai cultori delle statistiche. Il fatto è che i Macchiaioli hanno dentro la storia della pittura quattrocentesca toscana: Masaccio e Piero, per dire i primi; sono artisti per i quali la costruzione è l’origine stessa del quadro, ma anziché mediarla nella celebre tradizione del disegno toscano, dissimulano la prospettiva nel colore, nelle sue tacche o macchie, e portano a sintesi un discorso di forma-colore che Longhi aveva ben colto in Piero, secondo una logica che era già “eccentrica” rispetto al primato del disegno vasarianamente inteso. E qui entra Fattori, di cui a Palazzo Zabarella (Fondazione Bano) si sta tenendo una sostanziosa esposizione che consente di vedere il meglio del pittore livornese fino alle sue ultime prove. Giustamente nel catalogo edito da Marsilio Giuliano Matteucci cerca di armonizzare l’immagine che si ha rispetto al luogo comune che vuole che Fattori sia pittore di battaglie. Se pensiamo all’eroico confronto di Leonardo e Michelangelo con le battaglie di Cascina e di Anghiari, possiamo certo pen- sare che il clima risorgimentale abbia guidato l’immaginazione di Fattori, ma nel momento in cui si accinse a dipingere cariche di cavalleria, viluppi di corpi umani e animali, assalti alla baionetta, fino all’emblematico Garibaldi a Palermo, si sente come ogni movimento o moto sia subordinato a una stasi interna che blocca l’evento in un istante per così dire metafisico (di cui la pittura incarna l’immanenza temporale). Sta avvenendo qualcosa, questa cosa, e l’evento è colto mentre ancora deve compiersi, ovvero esaurirsi nell’atto che lo realizza. L’assalto, lo scontro, l’esplosione, la caduta da cavallo ( Lo staffato, la cui povera vita è colta come in un istante di ferma, come una natura morta, solo che rispetto alla frutta su un vassoio o a un bicchiere e una bottiglia nelle cui trasparenze si colgono riflessi del tempo e dello spazio, qui la corsa del cavallo che trascina il corpo del cavaliere caduto a terra assume una tragicità quasi da teatro greco, rende eterna e perturbante quell’immagine che dice la precarietà della vita umana e della vita del soldato in particolare). I soldati di Fattori, presi nei bivacchi, in perlustrazione, reduci da una battaglia, stanchi e malconci, nella loro anonima, silenziosa presenza (si ricordi l’arte “non eloquente” di Piero nelle annotazioni di Berenson: là parla la forma concreta e solida, la sua verità umana e grandissima; in Fattori parla l’architettura delle macchie che delineano figure su paesaggi che sembrano stratificazioni astratte di toni e spessori, di luci che forgiano lo spazio come un mosaico di pietre dure); ecco, quelle scene dove regna una calma inquietante, come un’attesa anonima, eterna, non sono diverse dai quadretti su tavola ribassati e orizzontalissimi, ma anche dai paesaggi livornesi. Lo schiacciamento verticale che in Mare azzurro diventa quasi un fregio astratto (con diversissimo segno, fa pensare a certe fantasie marmorine astratte dell’Angelico negli affreschi di San Marco); e i paesaggi agresti, i momenti della campagna, i bovi, fedeli e forti compagni dell’uomo, simboli positivi della Maremma di allora. Ecco, questo Fattori, che dà il meglio di sé negli anni Sessanta e poi insegue per il resto della vita quella purezza di sguardo e di pensiero (meno efficaci, fin dall’inizio, i ritratti; forse troppo intimo il genere per un uomo che, come scrisse Oscar Ghiglia, «parlava poco e non discuteva mai. Non ci teneva ad avere formule d’arte in tasca o a riempirsi la brava testa toscana con vangeli di scuole»); questo artefice di forme e di evidenze di colore-luce, regista plastico della pittura, non ha niente da invidiare a certa pittura francese del suo tempo, solo che si accetti di scindere una buona volta l’orizzonte macchiaiolo (che poi non significa granché, nonostante l’«arguzia dei fiorentini») da quello impressionista, riportando i nostri artisti, e Fattori in particolare, in un alveo che, volendo, parte da Giotto, Giotto scultore (cioè un’ipotesi, indotta dallo stile stesso del pittore che Longhi definì “spazioso”) fino al Caravaggio che usa la luce come fuoco che solidifica, vedi il forno per la creta, la pittura portandola a un di più di vita. Questo tendere alla sostanza plastica è il fondamento stesso di una metafisica dell’istante che si contrappone alla metafisica atmosferica dell’impressionismo, che vide la luce là dove furono inventati la fotografia e il cinema.