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INTERVISTA. Roberto Cammarelle: «Faccio a pugni, e pure del bene»

Carmen Morrone giovedì 12 aprile 2012
​Roberto Cammarelle, ci mette la faccia. Il campione olimpico dei pesi massimi, medaglia d’oro a Pechino, per l’associazione “Sport Senza Frontiere” è diventato testimonial. «Ambasciatore - precisa subito -. Per me è la prima volta, avevo già partecipato a favore di altre associazioni a serate e a eventi per raccogliere fondi, ma qualche mese fa ho deciso di fare di più...».Nell’anno olimpico, a pochi mesi dalla sua partecipazione a Londra?«Certo e mi piacerebbe poter fare qualcosa per l’associazione anche da Londra». Un amore così va raccontato dall’inizio...«Ho conosciuto l’associazione Sport Senza Frontiere tramite alcuni amici e mi sono trovato in sintonia con gli obiettivi. L’associazione dà la possibilità di fare sport ai bambini di famiglie che non possono pagare la retta di una palestra. L’associazione iscrive i bambini a una società sportiva e al corso scelto, se il ragazzino dimostra talento e desiderio, può continuare a fare quello sport anche per anni. Ma non è solo una questione di soldi…».Ci vuole spiegare?«L’associazione segue i bambini, le loro famiglie, che spesso sono immigrate. Non è solo l’offerta di un anno gratis ad esempio alla scuola di nuoto, ma Sport Senza Frontiere fa nascere rapporti fra le persone. Stranieri o no, poveri o ricchi i bambini fra loro non hanno frontiere. Bisogna, però, farli incontrare. L’associazione collabora con alcune società sportive, fra le migliori, che spesso non si trovano nel quartiere dove vivono i ragazzi che quindi possono incontrare persone nuove».Storie di riscatto sociale, come nel caso dei pugili?«Io non dovevo riscattare proprio nulla. La mia era una famiglia modesta, si viveva bene, senza lussi, senza sprechi. Dopo diversi anni che giocavo a calcio, ho iniziato a fare boxe per caso. Ero diventato molto bravo come centravanti ma da quel momento ho cominciato ad avere attorno persone che volevano darmi consigli, che mi dicevano cosa fare, con chi parlare. Mi avevano pure organizzato un provino alla Juventus. Non ci andai perché mi sentivo soffocare da tutta quella gente». Strano il passaggio dal pallone al ring...«Provai con la boxe perché un amico di famiglia nel tempo libero faceva l’allenatore di pugilato. Con lui cominciai a tirare pugni a un sacco che avevamo appeso nel seminterrato di una scuola a Cinisello Balsamo. Dopo qualche mese passai alla palestra e iniziai a capire che la boxe non è solo pugni».Molti però la pensano proprio così…«Colpa di un certo tipo di boxe che per lo spettacolo fa vedere anche il sangue. Ma quasi sempre in incontri del genere non c’è tecnica, se va bene i pugili sono capaci di tirare un paio di pugni. La boxe è logica, cervello. Io, ad esempio, non voglio vincere per ko, ma ai punti, che il match è una partita fra intelligenza e intuito». Un ragazzino però comincia a fare boxe perché abbatte fisicamente l’avversario...«Sarà pure così all’inizio, ma presto chi ci mette testa capisce che si misura la proprio forza fisica e mentale e ne apprende giorno dopo giorno il controllo. Il pugile non muove mai le mani fuori dal ring, perché conosce la sua forza e sa pure che non rispondere alle provocazioni è prova di forza non di debolezza. La boxe serve molto per combattere il bullismo».Due operazioni alla schiena, eppure lei è sempre sul ring.«Non salto la corda, non corro, mi alleno in altro modo, ma l’obiettivo non cambia. Nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro-Polizia di Stato a cui appartengo sono entrati anche gli atleti paralimpici. Loro sì che hanno da insegnare in fatto di forza di volontà». Diffondere lo sport fra i giovani può diventare un suo nuovo lavoro?«Non sarebbe male. Adesso però fatemi pensare alle Olimpiadi».