Agorà

TEATRO E PALLONE. Facchetti jr: «Il pallone va oltre le sbarre»

Massimiliano Castellani giovedì 13 dicembre 2012
​Non è una “palla prigioniera” quella che questa sera (ore 20,30) 14 detenuti della casa circondariale di Monza porteranno sul palco del Teatro Villoresi, ma «è una palla magica che ha qualcosa di laicamente “sacro”, come del resto è il gioco del pallone». Parola di Gianfelice Facchetti, figlio della bandiera interista Giacinto, regista dell’insolita pièce La partita, tratta dal romanzo omonimo (Feltrinelli) di Stefano Ferrio. Insolita, perché gli attori sono dei detenuti che (con la supervisione del direttore del carcere monzese, Maria Pitaniello e degli agenti della Polizia penitenziaria) «per la prima volta», dicono in coro, hanno la possibilità di abbandonare le loro celle e di affrontare “liberamente” la platea. Innocenti evasioni in nome del calcio. «È una sfida per tutti - racconta Gianfelice Facchetti - , cominciata tre mesi fa e non senza difficoltà, prima fra tutte: il teatro del carcere era inagibile...». Ma l’arte di arrangiarsi dietro le sbarre non conosce limiti e così per le prove è bastato ripiegare su un’aula e prendere in mano il testo La partita che ironia della sorte era il libro finalista all’ultimo Bancarella Sport, vinto proprio da Facchetti con il racconto biografico sul padre Se no che gente saremmo (Longanesi). «Un libro di calcio e di vita talmente bello quello di Ferrio che una notte l’ho letto tutto d’un fiato. Così ai ragazzi del laboratorio teatrale ho detto: eccola, questa sarà la nostra storia». La storia di 13 calciatori, più l’arbitro, «interpretato dal marocchino Hassan che ha giocato, è stato in prova alla Primavera del Parma», spiega Facchetti. Un talento Hassan, finito nel fango del dio pallone, recluso, e ora alla ricerca del tempo perduto, come tutti i suoi compagni della formazione protagonista: l’Inghilterra “multietnica” e non più quella “veneta” del romanzo. «Multietnica già, c’è dentro mezza Italia e tre peruviani. Rispetto al testo di Ferrio, con i ragazzi abbiamo deciso che la mitica “partita-rimpatriata” tra l’Inghilterra e il Bar Fantasia, si sarebbe disputata 30 anni dopo, invece dei 33 del testo originale. Poi ci siamo permessi di inserire un tormentone beckettiano-partenopeo che fa: “A’ dò stà o’ pallone?”». Sì perché la sgangherata squadra dell’Inghilterra, quella con le maglie «lavate e stirate dopo ogni partita», è senza pallone mentre attende il ritorno dei temibili avversari del Bar Fantasia. «Un’attesa estenuante in cui ingannano il tempo raccontando di vittorie e sconfitte esistenziali, in quel lasso ” che va dalla partita interrotta, anno del Mundial 1982, ai giorni nostri . È da allora, «il giorno di quel tiro al volo disegnato da Dio» che sognano di battere il Bar Fantasia. E con la mente si allenano al fatidico momento del gol facendo le «prove di esultanza: il trenino a carponi, come quello a ogni rete del Bari di Fascetti e di Igor Protti», dice convinto il pugliese Angelo. La magica sfera di cuoio finalmente si palesa e a portarla è la provvidenziale “santa Maria del pallone” che veste la maglia del Grande Torino di Valentino Mazzola. E qui comincia la parte esilarante della commedia: la scelta del capitano in base a elementi pretestuosi che vanno dal «chi recupera più palloni» alla «scuola sudamericana che in quanto “la migliore” merita la fascia al braccio solo chi vi appartiene». L’arrivo di quelli del Bar Fantasia però scompagina ogni alchimia e progetto tattico impartito da un mister d’eccezzione, il ct della Nazionale Cesare Prandelli in carne ed ossa. «Ho avuto Prandelli come tecnico nelle giovanili dell’Atalanta - dice Facchetti - e quando gli ho parlato del nostro spettacolo non ha esitato a dare la disponibilità a recitare la “sua parte”». Una presenza quella del ct azzurro che non fa stare più nella pelle i ragazzi, a cominciare da Fabrizio, il fantasista dell’Inghilterra, anche se indossa la maglia numero 2, «per il fatto che mi sento più il pilone che il pilastro di questa squadra». Una formazione che alla fine sta per arrendersi dinanzi agli avversari, «più giovani, senza “panza” e con i capelli», dice Ivan. Ma poi scatta l’orgoglio di gruppo: «Ce la giochiamo. Nel calcio tanto la differenza la fanno i piedi». L’Inghilterra “multietnica” ridotta a sette elementi dopo il discorso dell’arbitro a centrocampo, «in arabo, è marocchino», è costretta a convocare anche «i figli degli amici che sono scomparsi». Cose di un altro calcio. Così come solo in questa commedia poteva accadere che sul punteggio blindato di 2-2, entrasse in scena Roberto Boninsegna per calciare il rigore decisivo. «Da bambino i miei genitori per farmi stancare mi facevano saltare sul letto al coro di “Bo-nim-ba, Bo-nim-ba...”. Solo così prendevo sonno...». Ricordi nostalgici di Maurizio che sente l’emozione della vigilia del debutto davanti a un pubblico speciale che con l’ingresso a offerta aiuteranno la ricerca sulla Sla (la Sclerosi laterale amiotrofica che ha colpito oltre 55 calciatori). In sala ci saranno le famiglie dei detenuti e i loro amici di sempre che stanno aspettando il giorno del fine pena. E quel giorno, come il “Tito” al termine de La partita forse salutando il pubblico si congederanno con il beatlesiano «“here comes the sun”. Mi rivedrete dove sorge il sole...».