Agorà

INTERVISTA. Europa: lo spread è culturale

Andrea Galli venerdì 27 aprile 2012
​Si apre oggi in Vaticano la XVIII sessione plenaria della Pontificia accademia delle Scienze sociali, sul tema «La ricerca globale della tranquillitas ordinis – 50 anni dopo la Pacem in Terris». Tra i molti relatori blasonati anche l’arcivescovo di Monaco e Frisinga, il cardinale Reinhard Marx. Classe 1953, esperto della dottrina sociale della Chiesa, Marx è da quest’anno presidente della Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece). Eminenza, il suo intervento alla plenaria partirà da un richiamo al sogno europeo di Jean Monnet. Oggi l’Unione europea è percepita prevalentemente come un’entità tecnocratica: è stato tradito il sogno di Monnet o quello a cui assistiamo era invece il suo esito?«L’Unione Europea deve sicuramente essere qualcosa di più dell’effetto collaterale di una comunità economica, anche se non va dimenticato che il tanto criticato mercato interno ha contribuito in modo significativo al nostro vivere oggi in libertà, pace e benessere, in un continente funestato in passato da tante guerre. Ma questo mercato ha bisogno di un ordine giusto, dev’essere radicato in una solidarietà e responsabilità comuni. Un modello a questo riguardo è quello dell’economia sociale di mercato, che non è un semplice modello economico. Le sue radici sono i fondamenti filosofici e giuridici della civiltà greco-romana e della teologia biblica. L’economia sociale di mercato unisce la libertà del mercato con il richiamo alla giustizia e il comandamento dell’amore verso il prossimo. La presente crisi in Europa è anche una crisi d’identità, per aver dimenticato troppo spesso queste radici. Se continuiamo a lavorare a una comunità europea che sia comunità di solidarietà e responsa-bilità, e lavoriamo allo stesso tempo a una economia sociale di mercato su un piano europeo prima e mondiale poi, allora possiamo realizzare l’idea di Monnet di un’Europa come "contributo per un mondo migliore". È importante che il concetto di economia sociale di mercato sia stato introdotto per la prima volta in un accordo internazionale, ovvero nel trattato di Lisbona».In questa crisi finanziaria aumentano drammaticamente le tensioni tra gli Stati europei e la Ue. Pensa che la fine della moneta unica o anche dell’Unione europea, per come l’abbiamo conosciuta, sarebbe necessariamente un male?«Io osservo con molta preoccupazione le recenti spinte degli Stati nazionali in Europa sotto il segno dell’egoismo, del populismo e del provincialismo. I Paesi europei non devono ripiegarsi su se stessi, né perseguire solo interessi particolaristici ed economici, ma devono configurare un progetto positivo per il XXI secolo. Non siamo certamente i salvatori del mondo, ma vogliamo portare un contributo attraverso l’Europa. Non abbiamo bisogno di una ritirata nel nazionalismo, ma di un rilancio di quell’idea di Europa che può uscire soprattutto dalla concezione cristiana dell’uomo. Ricordo a questo riguardo quella "nuova sintesi umanistica" sollecitata da Benedetto XVI, che prende in considerazione lo sviluppo integrale dell’uomo. Ed è proprio dalla fede cristiana che può scaturire un entusiasmo duraturo per una comunità mondiale orientata veramente a principi etici. Il rispetto per l’uguale dignità di tutti gli uomini è un elemento decisivo e portante dell’Europa. L’Europa deve essere un progetto di mobilitazione positiva. Questo può e deve riflettersi anche in concreti progetti politici, per esempio nella lotta alla povertà e per i diritti umani».Europa un contributo per un mondo migliore», recita il titolo della sua relazione. L’Europa, attraverso la Nato, ha giocato un ruolo di primo piano negli interventi militari in Iraq e Afghanistan ed è stata protagonista del sanguinoso cambio di regime in Libia. Cosa le manca per diventare un vero attore di pace, non solo a parole?«L’Europa deve prendere coscienza della sua identità profonda, dei suoi fondamenti, tra i quali è essenziale la visione cristiana dell’uomo. Quella di Cristo, con la sua vita, morte e risurrezione, è la più grande storia di tutti i tempi ed è stata la più pacifica delle rivoluzioni. In forza di essa siamo chiamati anche noi ad agire per la pace, la libertà e la giustizia. L’enciclica Pacem in Terris mette in risalto come la vera pace non significhi soltanto assenza di guerra, ma sia qualcosa che solo "nella reciproca fiducia può esistere in modo sicuro e certo". Conformemente i rapporti fra gli Stati devono essere regolati secondo le leggi della verità, della giustizia e della solidarietà attiva. È in questo modo che l’unione dell’Europa può essere un contributo e un modello per il raggiungimento di una reale pace nel mondo. E tutto ciò è uno stimolo per rafforzare gli aiuti allo sviluppo e le iniziative diplomatiche per la pace e la democrazia, per esempio oggi nei Paesi arabi e nel Vicino e Medio Oriente. La Pacem in Terris sottolinea la necessità del disarmo, tema ancora di grande attualità. Purtroppo con i programmi di armamento guadagnano anche molte aziende europee».