Agorà

REPORTAGE. Etiopia. L'Africa che ti si attacca al cuore

Francesco Zanotti lunedì 28 gennaio 2013
«The water is the big problem>». È l’acqua il grande problema di una vasta area dell’Etiopia. Nei miei dieci giorni in terra d’Africa ho ascoltato più volte questo ritornello e l’ho verificato in ogni istante. Padre Oscar, il superiore dei missionari della Consolata, 50 anni, è un sacerdote colombiano. Per alcuni giorni è uno degli autisti di una piccola delegazione proveniente dalla diocesi di Cesena-Sarsina guidata dal vescovo Douglas Regattieri. Siamo qui grazie a un imprenditore cesenate in pensione, Bruno Fusconi, che degli ultimi trent’anni ne ha trascorsi almeno sei nella missione di Gambo, nella provincia di Arsi, in 23 soggiorni diversi. Grazie a lui e all’interessamento di un folto gruppo di suoi amici e sostenitori, i missionari hanno potuto dare vita a numerose opere in favore di una poverissima popolazione locale. Polvere, capanne, asini e persone a piedi. Maciniamo chilometri, in direzione sud, dalla capitale Addis Abeba (Nuovo fiore) verso Neghelli, lungo la strada che attraversa la Rift Valley e taglia in due la savana. Il paesaggio è sempre lo stesso: l’asfalto corre rettilineo accanto ai villaggi rimasti intatti nel tempo, nonostante gli scarichi dei pick-up e dei camion anni Sessanta. Lungo la grande arteria che porta in Kenya, sono migliaia gli etiopi che si muovono a piedi, la modalità di spostamento più usata. Fra la gente ci sono sempre mucche e somari in quantità, il maggior pericolo per i pochi automobilisti. Nei piccoli centri circola il cinquantino apecar formato taxi, per i trasferimenti urbani. Ce ne sono in quantità industriale. Appena si abbandona l’arteria principale, si piomba indietro di secoli. Le strade sono piste polverose nelle quali all’improvviso si presentano voragini, che si aprono nella stagione delle piogge. Anche su questi percorsi uomini e donne di tutte le età vanno e vengono di continuo. I più sono alla ricerca dell’acqua. Molti fanno chilometri per arrivare a un pozzo o a un fiume. I bambini hanno in mano taniche gialle da riempire. Si voltano al passaggio delle jeep, salutano, alzano la mano, sorridono e poi vengono investiti da una nuvola di sabbia rossa che li nasconde al nostro sguardo. I 18 chilometri che separano Neghelli dalla missione di Gambo si snodano su un terreno che appartiene al passato. Si vedono le bestie intente alla macina del grano. Nelle capanne di paglia non arriva quasi mai la corrente elettrica e l’acqua è una chimera per tutti. I campi sono bruciati dal sole, le mucche rinsecchite dalla mancanza di erba. Tutti resistono, nell’attesa di una stagione migliore.
La missione è una boccata d’ossigeno in un oceano di stenti senza fine. Fra scuole, ospedale, fattoria e altre piccole attività, oltre 300 famiglie possono contare su un reddito certo, seppur minimo. È già una fortuna, come racconta Amar (il nome è di fantasia). Percepisce uno stipendio che va dai 600 ai 900 birr al mese. Ha moglie e quattro figli. Tradotto nella nostra moneta siamo fra i 25 e i 40 euro. Ogni bambino alla scuola privata gli costa 150 birr al mese, «perché in quella statale non imparano nulla», precisa. Come fate, è la domanda che subito si pone? «Invece di saltare di più, si salta di meno», risponde pronto Amar che poco prima mi aveva chiesto notizie sul mio smarthphone. I 600 euro necessari per un cellulare di ultima generazione per lui sono un miraggio, quasi come l’acqua e la corrente dentro casa. Da Neghelli si arriva a Shashamane, la città cara a Bob Marley, poi al villaggio di Kaciaciullo, molto lontano dalla città, molto lontano dalla nostra civiltà. Là ci attendono i bambini. Aspettano padre Silvio Sordella, che qui viene a celebrare la messa. Con noi c’è anche il vescovo di Meki, monsignor Abraham Desta, al quale chiedono un prete a tempo pieno. La chiesa è in costruzione. Manca il tetto e forse mancano anche i fondi per completarla. Gli amici di Cesena sono qui anche per questo. Fra queste capanne non c’è disponibilità di acqua. Scavare un pozzo costa almeno 100 mila euro. Si deve arrivare a oltre 200 metri di profondità, ma poi l’acqua che si trova è troppo ricca di fluoro. Andrebbe bollita e filtrata. Invece qui la bevono così perché è sempre meglio di quella che si attinge nei fiumi dove scorre un liquido putrido e dove si lavano uomini e animali. È la dura legge della savana, quel luogo da cui sbucano ovunque bambini vestiti di poche cose sporche e strappate. Quella terra in cui uomini e donne meravigliose spendono la vita per amore del prossimo. I missionari costruiscono chiese, come quella nuova inaugurata a Neghelli nel corso del viaggio della delegazione cesenate. Ma pensano anche alle case degli uomini, al loro futuro, al loro sviluppo, umano e sociale. Le due suore che risiedono a Gambo lavorano per la promozione delle donne, quasi tutte senza alcuna istruzione. Hanno 450 progetti di microcredito garantito da fondi messi a disposizione anche con l’aiuto proveniente dall’Italia. Per accedervi accorrono due anni di scolarizzazione.
Suor Eurodoxia, brasiliana, e suor Anna Emilia, italiana, sono impegnate anche nella formazione dei bambini e dei ragazzi. I frutti si vedono nella solenne celebrazione del Natale, che qui si festeggia il 7 gennaio. I cori sono uno spettacolo all’interno di una liturgia che è una festa di famiglia. L’offertorio dura non meno di venti minuti e gli avvisi sono infiniti. Ma non importa: il tempo appartiene al Signore. «With you in Italy» è un’altra frase che pronunciano quei giovanotti che domandano una penna o un cappellino. A "passeggio" al mercato di Lephis o ai bordi della foresta per visitare la cascata nei pressi di Gambo, frotte di bambini fanno da scorta gioiosa. Ti si attaccano al braccio, chiedono "a photo" e poi vogliono rivederla in quello strano oggetto che immortala quei volti sempre sorridenti. Ad Addis Abeba, tre milioni di abitanti, la povertà è ancora più drammatica. Ovunque ci sono baracche e slum accanto ai nuovi palazzi che il governo costruisce da cinque anni, cioè dal 2000 secondo il calendario giuliano, qui in vigore assieme al nostro. Qui ho visto donne rovistare tra i rifiuti e giovani dormire lungo gli spartitraffico. Chi ha lasciato le capanne ha trovato una realtà ancora più cruda. Questa è l’Africa, quella strana terra che ti entra dentro e ti contagia.Ricordando la piccola Sashua dai grandi occhi neri
Edda ce ne ha parlato e noi non siamo stati capaci di non andare a trovarla. I grandi occhi neri hanno una luce spenta, nel bel viso di una ragazzina di 14 anni. Sashua (il nome è di fantasia) è adagiata sul letto, in una stanzetta dell’ospedale di Gambo, il migliore nel raggio di 100 chilometri. Con i suoi 150 posti e i reparti di pediatria, maternità, medicina, un’ottima sala operatoria e un reparto dedicato ai lebbrosi, il primo aperto dai missionari nel 1923, costituisce un’eccellenza per questo poverissimo territorio. Edda Pedri Stocco è un’infermiera di Busto Arsizio (Varese). Gira il mondo e le missioni da anni, ma dice che ha visto situazioni simili solo a Calcutta. «Qua – spiega – si è più indietro di almeno 50 anni rispetto a qualsiasi altro Paese africano. Adulti e bambini vagano come fantasmi. Cercano tra i rifiuti qualcosa per sopravvivere». Sashua è arrivata in ospedale accompagnata dal babbo, da due mesi è curata e medicata. Su tutto il corpo ha piaghe da decubito causate dalla malnutrizione. Ogni giorno Edda impiega quasi due ore per medicarla. Peserà venti chili. Non si regge in piedi. Il padre si è rivolto all’ospedale per tentare l’impossibile. Da quando è arrivato non si è mai cambiato gli stracci che indossa. Dorme accanto alla figlia, sdraiato su un cartone. Insiste con Edda e i medici perché li lascino andare, tanto, dice lui, non c’è più nulla da fare. Non può comunicare con la moglie rimasta a casa, lontana ore di cammino, con gli altri tre figli. Ricordo la mano di Sashua che si alza in un gesto di saluto verso noi due occidentali che siamo andati a farle visita. Sull’aereo che ci riporta a Roma, più volte ho rivisto quella scena. Mi sono sentito stringere il cuore pensando a quel babbo che non sapeva più che fare, impotente davanti alla devastazione. Ho pregato, ho taciuto, ho meditato. Abbiamo messo mano al portafogli, l’unico gesto che sappiamo fare. Poi ho letto una email, la sera stessa del rientro. «Sashua è morta. Non ce l’ha fatta». E non si sa più che altro scrivere.