Agorà

Storia. Il mistero irrisolto di Gian Galeazzo Sanseverino

Franco Cardini venerdì 16 dicembre 2022

François Dubois, “Il massacro di San Bartolomeo” (1572-1584)

Precisamente 548 anni or sono, tra Montélimar (nota per i suoi dolciumi e perché Emilio Salgari rammenta il suo marchese nel ciclo dedicato ai corsari) e Châteauneuf- du-Rhône, Francia meridionale, si consumava ai primi del gennaio 1575 un assassinio tanto efferato quanto ormai caduto nel silenzio dell’oblìo. Ne erano autori alcuni “ugonotti” francesi, termine ormai semisconosciuto a tutti e specialmente agli studenti di storia (e magari anche a qualche docente). Ne era vittima un nobilissimo e ormai scordato signore italiano, che dominava i feudi (lontani ed estranei fra loro) di Caiazzo nel Napoletano e di Colorno nel Parmense: Gian Galeazzo, lontano discendente di un “capitano di ventura” famoso nel Quattrocento (e che ci ha lasciato fra l’altro un bellissimo diario di pellegrinaggio a Gerusalemme), Roberto Sanseverino. Mandanti, esecutori, circostanze e soprattutto ragioni di quel delitto appaiono ancor oggi misteriosi: siamo dinanzi a un altro “giallo” storico, più intricati spesso di quelli di Alfred Hitchcook, di Agatha Christie e di Mike Spillane messi insieme: e, a differenza di quelli, restati spesso irrisolti. Ma Gigliola Fragnito – docente emerita dell’Università di Parma e una tra le più attenti e raffinate delle nostre studiose – non è certo il tipo da spendere il suo tempo divertendosi con un “giallo storico”, per intricato e avvincente che sia. Il suo scopo è difatti proporci una figura “minore” (?) del Rinascimento italiano e francese, appunto il comandante militare e quindi membro del consiglio privato della corona di Francia Gian Galeazzo Sanseverino, che il grande Brantôme definisce “ brave et gallant gentilhomme italien”: e attraverso di lui offrirci un nuovo, inedito panorama di un periodo che noialtri italiani dovremmo conoscere abbastanza bene mentre non conosciamo quasi per nulla. Si allude alla seconda metà del Cinquecento allorché il regno di Francia passò attraverso le “guerre di religione” tra cattolici e riformati calvinisti (gli “ugonotti”, appunto) al tempo della Regina Caterina de’ Medici vedova di Enrico II e in attesa che un nuovo re di Francia, Enrico IV, si unisse in matrimonio con un’altra principessa di casa Medici, Maria.

E siamo, con questo libro della Fragnito (Il condottiero eretico. Gian Galeazzo Sanseverino prigioniero dell’Inquisizione; il Mulino, pagine 222, euro 18,00), nel pieno di quella crisi dalla quale sarebbe scaturita, il 24 agosto del 1574, la tristemente celebre “Notte di san Bartolomeo”. Molte cose sarebbero accadute però prima di allora: e avrebbero avuto come protagonista appunto Gian Galeazzo, il nome del quale allude alla lunga fedeltà che i membri della sua famiglia avevano conservato nei confronti della vecchia dinastia ducale degli Sforza. Nato nel 1527-28 e presto trasferitosi in Francia, egli aveva militato a lungo, fino dal 1556, nelle “guerre d’Italia” al servizio della monarchia dei Valois. Le sue benemerenze gli avevano procurato onori e prebende da parte di Enrico II e di Carlo IX: ma anche i sospetti del “papa-inquisitore” Pio V, che nel dicembre del 1570 aveva fatto disporre da Ottavio Farnese duca di Parma e Piacenza il suo arresto a Colorno, dove Gian Galeazzo sovente si recava per più o meno lunghi periodi di riposo. L’accusa era di sospetta eresia. La regina Caterina e il re Carlo IX protestarono con veemenza presso il pontefice contro quell’arresto, difendendolo sia in quanto loro vassallo – ma lo era, per Colorno, anche del papa –, sia in quanto militare che molti meriti aveva acquisito nell’armata regia contro gli ugonotti. Il pontefice ribatteva adducendo prove a sua disposizione che mettevano il Sanseverino in ben altra luce: d’altronde su Caterina gravava il sospetto di aver coltivato in qualche modo a sua volta simpatìe ereticali. Indagando sull’autentica personalità religiosa della regina fiorentina di Francia e vagliando attentamente le carte della difesa di Gian Galeazzo dinanzi al tribunale dell’inquisizione – dal quale venne infine prosciolto nel settembre del ’71 in circostanze, tuttavia, non del tutto limpide – l’Autrice fa magistralmente emergere il profilo di una personalità complessa eppure poco incline al dibattito dottrinale e disposto semmai a cercare forme di compromesso tra ortodossia cattolica e sentire riformato, badando forse più alla pratica di un cristianesimo positivo e al conseguimento dei compromessi necessari alla convivenza; il centro dei suoi interessi restava semmai la politica. Il fatto era che a quel punto il pontefice, mentre dopo la vittoria contro gli ottomani ottenuta a Lepanto con gli alleati veneziani e spagnoli amareggiata tuttavia dal fatto che il Turco, vinto in battaglia, aveva tuttavia trionfato nel risultato finale della guerra di Cipro, si stava sia dalla Serenissima, sia da Madrid, e riteneva opportuno riavvicinarsi alla corona francese: a tale scopo una Caterina dotata di fama più significativamente fedele alla Chiesa di Roma e un Sanseverino liberato da qualunque dubbio riguardo alla fede senza dubbio gli erano entrambi utili. Le fonti si esprimono in modo molto diverso fra loro a proposito del condottiero, visto ora come buon cattolico ora invece come personaggio ambiguo e sfuggente. Certo, negli ultimi tempi, si era messo in luce per la sua vicinanza a Caterina nell’impegno antiugonotto.

Ma furono davvero ugonotti i mandanti e gli esecutori del delitto del gennaio 1575: e la loro fu la risposta a un atteggiamento ormai divenuto intransigente, la punizione tesa a colpire un comportamento ambiguo o l’esecuzione di una sentenza formulata contro un traditore? L’abilità e la finezza di Gigliola Fragnito non con-siste nell’asseverare una tesi sicura, bensì nel mostrare con estrema sensibilità e grande dottrina la realtà di un tempo e di personaggi segnati da un’ambiguità che i tempi rendevano inevitabile. Notevolissima infine – in pratica un libro a parte, dopo l’indimenticabile La Sanseverino del 2020 e in attesa di uno nuovo – l’appendice “ Animo et intentione uxoricidium committendi”. Giovan Battista Borromeo uccide Giulia Sanseverino. Col che abbiamo davvero un intrigo esemplare del più profondo dark side di cui sia capace il nostro Rinascimento. Con protagonisti di ben scandito profilo: Gian Galeazzo Sanseverino, assassinato nel 1575 da ignoti e vittima eccellente dell’italofobia dei francesi fra Cinque e Seicento, con due regine di casa Medici; sua nipote Giulia, figlia di Gian Francesco e di Lavinia entrambi Sanseverino, rispettivamente quindi cugino e sorella dello stesso Gian Galeazzo; Giovan Battista Borromeo, che l’8 marzo del 1577 pugnalò a morte furiosamente Giulia sotto gli occhi dei suoi familiari e rischiò per questo di essere giustiziato; il cardinale Carlo Borromeo, futuro santo della Chiesa e cugino di Giovan Battista, che nell’agosto del ’79 riuscì a salvarlo dall’esecuzione facendogli ottenere la grazia. In tutto il libro, ma soprattutto in queste pagine conclusive a prima vista marginali, Gigliola Fragnito si conferma una studiosa di genio: il suo è un tema da thriller o da spy-story con riflessi di family tragedy, trattato con la misura e la competenza di una lucida infaticabile ricercatrice. Qui siamo ad Alfred Hitchcock riletto e riscritto da Marino Berengo.