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INTERVISTA. Enard: Mediterraneo, maremoto senza fine

Daniele Zappalà lunedì 2 settembre 2013
«La mia passione per il Mediterraneo, per le sue sfide politiche e culturali, è nata studiando l’arabo e il persiano in Medio Oriente, quando in realtà non sapevo bene cosa avrei trovato. Con il tempo, questa passione si è imposta in modo sempre più potente». Da qualche anno, in Francia e non solo, i romanzi del talentuoso Mathias Enard fanno molto discutere. Al di là di certe scelte controverse di stile e contenuti, Enard appare già a certi critici come l’apripista di una nascente e necessaria letteratura d’ispirazione pienamente mediterranea, ovvero ancorata al contempo alle rive Nord e Sud. Di certo, le narrazioni del romanziere trasmettono tutte il bagaglio polifonico di una vita errante: prima di stabilirsi a Barcellona, Enard ha vissuto anche a Beirut, Tunisi, Venezia, Roma. Il 7 e 8 settembre, lo scrittore interverrà al Festivaletteratura di Mantova. In Italia, Rizzoli ha tradotto Zona (2011), flusso di coscienza caleidoscopico di una spia in crisi, e Parlami di battaglie, di re e di elefanti (2013).  Lo stile frastagliato dei suoi romanzi nasce dal desiderio di abbracciare il Mediterraneo, così complesso e inafferrabile?«Ogni libro è un progetto diverso. Ma in Zona, ho cercato di esprimere attraverso lo stile la diversità e il tumulto storici del Mediterraneo, dove tutto è sempre distrutto e ricostruito, in una sorta di maremoto senza fine. Basti pensare a quanto accade oggi in Siria. Per me, la letteratura deve entrare in simbiosi con la complessità del mondo. In Parlami di battaglie, le liste di merci scambiate nel Cinquecento nel Mediterraneo mi sono sembrate pure un buon modo per evocare con precisione lo spazio economico e la cultura materiale dell’epoca. Ho pensato molto meno all’esotismo ispirato da certi nomi».«Parlami di battaglie» tratta di un ponte fra Occidente e Oriente destinato a restare un progetto. Un simbolo della fragilità mediterranea?«L’architettura è una forma d’arte e nel Mediterraneo l’arte si ritrova talora sotto scacco fra le forze politiche o i destini storici. Nel libro, il crollo finale è dovuto a una catastrofe naturale, ma uno sconvolgimento politico avrebbe potuto produrre gli stessi effetti. Detto ciò, non credo che esista un destino mediterraneo separato da quanto accade ad esempio in Asia o nell’Europa del Nord. Nel Mediterraneo, convergono e si annodano forze provenienti anche da molto lontano».  Nel suo ultimo romanzo uscito in Francia, «Rue des voleurs», l’arabo scritto fa talora capolino. Quanto conta questa lingua nella sua vita di scrittore?«Ancor più che il persiano, l’arabo fa ormai parte della mia cultura. Lo parlo o leggo quotidianamente. Tutti i progetti futuri che ho in mente riguardano il Medio Oriente, forse semplicemente perché non saprei fare diversamente, tanto sento questa dimensione presente. Grazie a questa lingua, ho potuto apprezzare la ricchezza infinita del mondo mediterraneo. E se sento di restare curioso, è grazie a questa ricchezza. Nel Mediterraneo, percepisco di continuo un’infinità di aspetti da scoprire e comprendere. Ogni volta, è come trovarsi davanti a una figura della geometria frattale. Più si avanza, più si scoprono nuove rive, per così dire». «Rue des voleurs» parla di giovani magrebini che scrutano e talora sognano l’Europa. Perché ha scelto questo tema?«In Europa, ben pochi cercano di cogliere davvero il legame fra quanto accade ad esempio a Barcellona o Milano e, al contempo, a Tangeri o Tunisi. Le città del Nord e del Sud ci sembrano fra loro molto lontane. In Rue des voleurs, cerco invece di mostrare che esiste una prossimità politica straordinaria e che ogni cittadino mediterraneo, che lo voglia o meno, porta una responsabilità verso tutto il sistema».I suoi romanzi evocano spesso pure i Balcani...«È vero. Per me, è la parte dimenticata dell’Europa. Come se quest’ultima non sapesse bene cosa fare dei Balcani. Al di là delle separazioni della Guerra fredda, pesa ancora pure l’eredità così complicata della presenza ottomana. Eppure, le relazioni fra ortodossia, islam e cattolicesimo hanno generato pure realtà estremamente interessanti. Nei Balcani, comincia ancor oggi la nostra incomprensione dell’Oriente. Ma anche in questo caso, non potremo sbarazzarci di ciò che ci è vicino e che fa un po’ parte di noi. L’ingresso possibile di Serbia e Albania nell’Unione potrebbe obbligarci a guardare la realtà in faccia, in tutta la sua complessità e ricchezza, al di là delle foto da cartolina che ci giungono oggi dalla Croazia». Su ogni riva, arte e letteratura possono aiutare a superare le paure dell’altro? «È difficile dirlo, ma quando mi trovo a Istanbul sono ottimista, perché ho l’impressione che si tratti della città più dinamica d’Europa, anche sul piano artistico e culturale. C’è poi nel Mediterraneo un’eredità multiculturale da difendere. Quando vivevo a Tunisi, sono entrato in contatto con la comunità siciliana della città, che conta pure degli artisti e che ho trovato affascinante. Eppure, simili ponti culturali restano misconosciuti. Spesso, per cominciare, basterebbe aguzzare la vista su ciò che c’è già».Al contempo, emergono nuovi timori. I veli femminili che affascinarono tanti orientalisti europei evocano oggi pure violenza ed estremismo...«In effetti, non serve a nulla chiudere gli occhi su quanto può emergere d’inquietante o spaventoso sulla riva Sud, come l’islam politico radicale. Ma quest’ultimo progetta proprio di farci paura, di fomentare lo scontro, d’impedirci di vedere l’estrema maggioranza che pratica serenamente l’islam. Non possiamo permetterci di cadere in questa trappola».