Agorà

La storia. L'orco Eiger: la cima assassina

Paolo Ferrario mercoledì 20 luglio 2016
Il turista inglese sposta leggermente di lato il cappello di paglia e sistema la messa a fuoco del potente cannocchiale puntato contro la parete nord dell’Eiger. È l’ora del cocktail sul balcone panoramico del grande albergo, ma il suddito di Sua Maestà non ha occhi che per la montagna e i quattro puntini neri che, con tenacia, la stanno scalando. Peccato che, da qualche ora, la nebbia precluda lo spettacolo. «Chissà a che punto sono? », si chiede l’uomo. Quando uno squarcio improvviso nel cielo gli ridona la vista della parete. Ma non dei quattro puntini neri. Anzi, eccone uno. Ma è fermo, penzoloni nel vuoto. E gli altri? L’inglese non lo può sapere, ma sulla montagna si sta consumando la prima, grande tragedia, che negli anni ha avvolto di un alone nero la più famosa montagna dell’Oberland bernese. Che, già nel nome, Eiger (orco), non fa presagire nulla di buono per chi si vuole cimentare con la sua parete Nord, una gigantesca lavagna di roccia e ghiaccio, alta più di 1.800 metri, che dai prati del valico del Kleine Scheidegg (2.061 metri), porta ai 3.970 metri della vetta. Nell’estate del 1936, la Nordwand non era ancora stata scalata, ma già aveva avuto le prime due vittime. A due anni prima risale il primo tentativo di ascensione da parte degli alpinisti tedeschi Willy Beck, Kurt Löwinger e Georg Löwinger. La cordata riesce a salire fino ad una quota di 2.900 metri, poi si ritira. L’anno successivo, la salita è tentata da un’altra cordata tedesca, composta da Karl Mehringer e Max Sedlmeyer. I due raggiungono una quota di 3.300 metri, ma sono sorpresi dal maltempo, che li blocca in parete, dove muoiono di freddo. Il posto dove si fermarono è da allora noto come “bivacco della morte”. Nell’estate del 1936, la Nord dell’Eiger finisce così nel mirino di altri due alpinisti tedeschi, tra i più forti in circolazione: Andreas Hinterstoisser e Toni Kurz. Entrambi guide alpine, attaccano la parete il 18 luglio, insieme alla cordata austriaca formata da Edi Rainer e Willy Angerer. Per un tratto le due cordate arrampicano separate, ma poi uniscono le forze per procedere più speditamente. In breve giungono al primo passaggio chiave, una traversata che conduce al Primo nevaio. Qui Hinterstoisser dà prova della sua grande abilità su roccia superando brillantemente il passaggio che, da allora, porta il suo nome. Ormai la strada per la vetta è spianata, pensano i quattro, che, nell’euforia del momento, compiono un errore fatale. Non sanno, infatti, che senza una corda fissa, non è possibile compiere la traversata in senso opposto. Per questa ragione, ancora oggi, pur con l’evoluzione delle tecniche e dei materiali degli ultimi ottant’anni, la “traversata Hinterstoisser” è attrezzata con una serie di corde fisse. Ai quattro cavalieri dell’estate 1936, naturalmente, non passa neanche per l’anticamera del cervello l’eventualità di dover ripercorrere a ritroso quel passaggio. Sono assolutamente certi che la strada di casa passi unicamente per la vetta. E così ritirano la corda e riprendono a salire, galvanizzati da quel primo, importante successo. La parete Nord dell’Eiger ha, però, una particolarità che la rende unica nel panorama alpino. Le sue rocce hanno la capacità di attirare le perturbazioni di passaggio, che qui si fermano spesso e volentieri, scatenando l’inverno in piena estate. Insomma, mentre a valle le mucche pascolano sui prati fioriti, a poche centinaia di metri in linea d’aria le temperature scendono rapidamente sotto lo zero. Questo choc termico continuo provoca distacchi di valanghe e slavine di roccia. Ed è proprio ciò che capita ai quattro alpinisti austro-tedeschi il secondo giorno di scalata. Una scarica di sassi colpisce in pieno Angerer che, gravemente ferito alla testa, è costretto a progredire molto lentamente, rallentando anche i compagni. Dopo un altro, penosissimo, giorno di scalata, il 20 luglio i quattro cominciano la ritirata. Arrivati al traverso si accorgono ben presto dell’errore commesso ritirando la corda. Per cinque ore, Hinterstoisser, il più forte del gruppo, cerca di forzare il passaggio, ma ogni volta cade e deve ricominciare da capo. Quando, sfinito, si arrende, i quattro alpinisti capiscono che l’unica possibilità di salvezza è calarsi per oltre cinquecento metri lungo la parete. Intanto comincia a nevicare e il freddo gela le corde. «Ehilà, tutto bene?». Il grido squarcia il silenzio della montagna. Il guardiano della ferrovia dello Jungfrau, che percorre la lunga galleria scavata nella montagna, esce dalla finestra ricavata sulla parete Nord durante i lavori, per sincerarsi delle condizioni dei quattro. Dal basso, i turisti che seguono l’ascensione coi cannocchiali hanno dato l’allarme quando li hanno visti scendere. «Tutto bene!», risponde Hinterstoisser, che non fa cenno al compagno ferito. «Ormai manca poco – pensa – ancora qualche calata e potremo prendere un tè caldo col ferroviere». All’improvviso, però, un’enorme slavina si abbatte sul gruppo. Hinterstoisser, che si era slegato per preparare la discesa, viene precipitato nell’abisso. Angerer e Kurz restano appesi nel vuoto, uno sopra l’altro legati alla stessa corda. Durante il volo, Angerer sbatte violentemente la testa contro la parete e muore. Il peso dei due corpi schiaccia contro la montagna Rainer, anch’egli legato alla stessa corda, che in dieci minuti perde la vita soffocato. Quando la tempesta si placa, il ferroviere esce nuovamente dalla finestra e chiama. Ma stavolta, gli risponde una sola voce che chiede aiuto. È Kurz, l’unico sopravvissuto. La situazione è drammatica. È penzoloni nel vuoto, con un compagno morto legato sotto di lui e un altro, anch’egli morto, sopra. Quando le squadre di soccorso, allertate dal ferroviere, escono dalla finestra, capiscono subito che non sono in grado di raggiungere Kurz. L’unica possibilità di salvezza è che riesca a risalire fino alla sosta e cali una corda ai soccorritori. Intanto, però, scende la sera e Toni, ferito e stravolto dalla fatica, si prepara a passare la sua terza notte in parete, appeso a uno strapiombo. All’alba è ancora miracolosamente vivo. Ha perso un guanto e ha una mano congelata. Compiendo sforzi sovrumani riesce a risalire lungo la corda fino alla sosta e qui, aiutandosi coi denti, sfilaccia i trefoli della fune di canapa ottenendo un cordino abbastanza lungo che raggiunge i soccorritori, ma non abbastanza robusto da reggere il suo peso. Al cordino viene legata una corda a cui ne viene aggiunta una seconda con un nodo. Finalmente, dopo quattro interminabili giorni, Kurz può iniziare la calata verso la salvezza. È sfinito e, per rallentare la discesa, aggancia la corda a un moschettone. Ormai è a quindici metri dai soccorritori. Ma la discesa si interrompe bruscamente: il nodo che unisce le due corde non passa dal moschettone. Il destino si accanisce contro Toni ma lui non vuole mollare. Non dopo tutto quello che ha passato. Afferra il nodo coi denti come volesse ingoiarlo, ma niente. La corda non passa. Dopo altre ore di inutili tentativi, i soccorritori sentono distintamente: «Ich kann nicht mehr», «Non ne posso più». Così, a quindici metri dalla salvezza, morì Toni Kurz sulla Nord dell’Eiger nell’estate del 1936. La giovane guida alpina esalò l’ultimo respiro, praticamente in diretta, sotto gli occhi di decine di “spettatori” incollati ai binocoli. Mentre i camerieri distribuivano i cocktail.