Agorà

Lirica. Ed Emma Dante porta il tiranno in Sicilia

Angela Calvini mercoledì 25 gennaio 2017

Il baritono Giuseppe Altomare nel "Macbeth" di Verdi con la regia di Emma Dante al Teatro Massimo di Palermo

«O gran Dio, che nei cuori penetri, /tu ne assisti, in te solo fidiamo». Il coro sommesso invoca l’Onnipotente, attonito di fronte allo scempio dell’assassinio del re Duncano, mentre alcune pie donne lavano il cadavere del sovrano. Una di esse lo sorregge, una sorta di Madonna addolorata coronata da 7 spade a raggiera, come in una di quelle maestose Pietà portate a spalla nelle processioni del Sud. È questa la vera contro-provocazione della regista Emma Dante, una sottolineatura cristica del sacrificio del re saggio ucciso a tradimento da Macbeth, non tanto quella più pubblicizzata della scena simbolica in cui i fauni ingravidano le streghe-profetesse (per poi diventare dei teneri papà che fanno fare il ruttino ai loro bebé/bambolotti). Movimentata, oscura, ma al tempo stesso sgargiante e di grande impatto, la regia della Dante, sfacciatamente orgogliosa delle radici siciliane tanto da piazzare in Scozia eserciti di pupi e fichi d’india, ha fatto la differenza nel Macbeth di Giuseppe Verdi, che ha inaugurato sabato sorso la stagione del Teatro Massimo di Palermo. Dieci minuti di applausi per questo importante allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e con lo Sferisterio di Macerata, che ad agosto sarà al Festival di Edimburgo, anche per la sobria direzione musicale del maestro Gabriele Ferro, per il baritono Giuseppe Altomare, che ha interpretato Macbeth sostituendo l’indisposto Luca Salsi e per Anna Pirozzi, una Lady Macbeth di carattere.


In un fine settimana pieno di regie furbamente “ad effetto”, da Bologna a Venezia, la regista palermitana stavolta rinuncia alle esagerazioni, e si mette a disposizione di una lettura finemente psicologica dei personaggi, in linea col pensiero di Giuseppe Verdi. Il quale, per quest’opera sin troppo sottovalutata, scritta nel 1847 su libretto di Francesco Maria Piave, e resa definitiva nel 1865 (quella in scena a Palermo, sino al 29 gennaio) voleva toni musicali oscuri come gli angoli bui delle anime dei protagonisti. E dal buio della scena emergono e scompaiono, congiurati, sicari e fantasmi in una atmosfera da thriller cinematografico, mentre dall’alto scenografo Carmine Maringola cala spettacolari cancellate d’oro a formare immense corone. La brama di potere brilla e abbaglia il generale Macbeth, che torna dalla battaglia a cavallo dello scheletro di un cavallo, “rubato” a Il trionfo della morte, l’affresco che ornava nel ’400 palazzo Sclafani a Palermo. Decine di streghe sempre agitate gli predicono l’ascesa al trono scrutando nei loro pancioni un futuro che posseggono, e che vuole possedere più di tutti Lady Macbeth. Lei, senza figli, disposta per un’ambizione sterile a manipolare un marito che l’ama e spingerlo a compiere un’orrenda scia di delitti pur di raggiungere e mantenere il potere. È lei il personaggio centrale e più sfaccettato, una sorta di demone. Il clou della commozione sulle note solenni del coro Patria oppressa di fronte ai cadaveri delle vittime della coppia diabolica. Ma le colpe pesano, il sangue non si lava dalle mani, i rimorsi tolgono il sonno, il potere logora. Gli oppressi, alla fine, rialzano il capo e il tiranno viene sconfitto. Prima di tutto, da se stesso.