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Letteratura. Corti, l'antitotalitario incompreso

Alessandro Zaccuri mercoledì 5 febbraio 2014
La casa di Besana in Brianza, dove Eugenio Corti è morto all’età di 93 anni nella notte tra lunedì e martedì, è un edificio semplice, essenziale. Il cortile, la grande sala con il camino e su, al piano di sopra, le stanze dello studio e dell’archivio. I raccoglitori conservano in ordine perfetto recensioni, contratti, interventi critici e lettere - numerosissime - di lettori che ringraziano Corti per essersi riconosciuti nelle sue pagine. Era il romanziere delle persone umili. Dei "paolotti", come amava dire lui: credenti tutti d’un pezzo, alla sua maniera orgogliosa e concreta, il vero popolo di un’Italia troppo trascurata dalla rappresentazione artistica e dei media. Non se la prendeva quando lo definivano "scrittore cattolico", perché questo si sentiva, questo voleva essere. Cattolicissimo, anzi. Pronto a tenere testa, in punto di dottrina, perfino all’amato Manzoni.«Vorrei che fosse ricordato per il lavoro che ha fatto come scrittore», ha dichiarato la moglie Vanda annunciando i funerali, che si svolgeranno sabato 8 febbraio, alle 10.30, nella basilica di Besana. Così sarà, senza dubbio: Corti rimarrà per sempre l’autore del Cavallo Rosso, best seller silenzioso da quasi 1.300 pagine e centinaia di migliaia di copie, edito nel 1983 da Ares, la casa editrice che ha in catalogo tutte le sue opere e anche Parole scolpite, il prezioso libro-intervista realizzato da Paola Scaglione. Era uno scrittore completo, formatosi con metodicità caparbia studiando la storia e la filosofia, affrontando con coraggio le ideologie del secolo e prendendosi i suoi rischi, anche sul piano letterario. «Se ho letto Proust? - diceva - Certo che ho letto Proust, non se ne può fare a meno. Ma bisogna stare attenti a non farsi invischiare dal suo stile, a non diventare imitatori…».Il materiale proustiano non gli sarebbe mancato, ma Corti non desiderava raccontare la sua storia: aveva scelto, semmai, di raccontare la storia di tutti. A Besana era nato il 21 gennaio 1921, primogenito di dieci fratelli. Il padre, garzone di bottega all’età di 13 anni, era diventato un industriale tessile ed Eugenio pareva destinato a essere il suo successore. Ma il ragazzo aveva altri interessi e, intanto, la guerra incombeva. Nel 1941 Corti lasciò gli studi di giurisprudenza alla Cattolica di Milano, si arruolò alla Scuola ufficiali, ottenne il grado di sottotenente. In Russia arrivò nel 1942 e partecipò all’avanzata dal Donez al Don, che l’Armata Rossa respinse con una durissima controffensiva. Sono i giorni della battaglia nella sacca di Arbusov e della ritirata che Corti descrisse nel suo primo libro, I più non ritornano, apparso nel 1947 e subito lodato da Mario Apollonio per l’esattezza e l’asciuttezza dello stile. L’altra metà della guerra combattuta da Corti, e cioè la sua adesione dopo l’Armistizio all’esercito regolare (tra quelli che, con ingiusto disprezzo, furono chiamati "i badogliani") è materia di un altro racconto, di elaborazione più complessa e pubblicato in forma definitiva nel 1994 con il titolo Gli ultimi soldati del re.La Russia, per Corti, non aveva rappresentato soltanto l’esperienza della guerra. Dalla sua volontà di approfondire e contestare il meccanismo del terrore comunista scaturì il dramma Processo e morte di Stalin, andato in scena nel 1962: un testo sotto molti aspetti in anticipo sui tempi e che alienò a Corti le simpatie di una parte consistente nella critica. Con una decisione che gli era tipica, netta e irrevocabile, a partire dal 1973 lo scrittore abbandonò ogni altra attività e si dedicò esclusivamente alla stesura del suo capolavoro. Il Cavallo Rosso uscì nel 1983, appunto, in un contesto politico e culturale tutt’altro che favorevole. È un romanzo corale, che si ispira alla grandiosità di Guerra e pace e di Arcipelago Gulag. Non è solo il resoconto delle Campagne di Russia e di Libia, né l’argomento si estingue nell’impatto con il regime sovietico. Costruito su un arco di tempo che va dal 1940 al 1974, è anche un’epopea della ricostruzione e, insieme, una denuncia della crisi di valori che per Corti - in prima fila nel referendum sul divorzio - è principalmente crisi dell’istituto familiare.Il romanzo conquistò i lettori e imbarazzò la critica, almeno quella italiana, che non è mai arrivata a riconoscere pienamente l’importanza di Corti, a dispetto delle molte traduzioni all’estero e dei non rari riconoscimenti. Anche di questa incomprensione, però, lo scrittore andava in qualche misura fiero. La considerava come una conseguenza della sua irriducibilità, confermata nel corso degli anni sia dai "racconti per immagini" in cui aveva dato corso alla sua vocazione pedagogica (La terra dell’indio, 1998; L’isola del paradiso, 2000; Catone l’Antico, 2005), sia negli scritti sulle ambiguità del mondo contemporaneo (Il fumo nel tempio, 1995) e, specularmente, sulla perduta christianitas europea (Il Medioevo e altri racconti, 2008). Nel 2010 era stata lanciata una campagna per attribuire all’autore del Cavallo Rosso il premio Nobel per la letteratura. Troppo tardi, forse. Del resto Corti il suo Nobel lo aveva già ricevuto: erano stati i lettori a darglielo.