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Cinema. Parigi, addio Jean-Paul Belmondo "Bebel", genio ribelle

Massimiliano Castellani lunedì 6 settembre 2021

Ci sono due storie e due volti indimenticabili di figli di “paisà” di Francia, a cui tutti noi, stregati dal grande schermo, siamo rimasti sempre legatissimi. Il primo, è l’attore e chansonnier Yves Montand (1921-1991), registrato all’anagrafe di Monsummano (Pisa) come Ivo Livi; l’altro era l’attore, il genio ribelle Jean-Paul Belmondo, di padre piemontese e madre siciliana, che oggi a 88 anni è salito nel mondo dei più.

La sua storia cinematografica coincide con la nascita della Nouvelle Vague e con la prima prova da regista di quel genio di Jean-Luc Godard. Il 25enne e scanzonato Jean-Paul accettò di prestare quella maschera da angelo con la faccia sporca al servizio del 28enne regista che girava il corto Charlotte et son jules. Prove tecniche del capolavoro del 1960 À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) pellicola rivoluzionaria come spiega mastro Fofi (pezzo sotto), che avrebbe proiettato il guascone Belmondo e il serafico Godard nell’agone del cinema internazionale. Era nata una stella, il “bel Bebel”. Un colpo di fulmine per il pubblico. Belmondo da subito divenne l’idolo delle donne, la sorpresa più ricercata dai registi dell’epoca e perfino oggetto di dissertazione degli intellettuali. L’eminenza grigia francese Jean Cocteau profetizzava all’esordio: «Belmondo è l’attore di domani».

Jean-Paul Belmondo nel 2016 - Ansa

Un predestinato per caso, ma eletto a icona del “duro”, senza essere cresciuto, come l’epigono del genere, Jean Gabin, nella polvere delle periferie povere della Ville Lumiere. Belmondo arrivava infatti da una famiglia borghese di Neuilly, era sì cresciuto nel 14° arrondissement ma lì aveva appena sfiorato e mai colto i fiori del male. Lo aveva salvato la poesia e l’estetismo domestico di due genitori artisti, mamma pittrice e padre scultore che a Parigi c’era arrivato dall’Algeria per andarsene tutte le domeniche al Museo del Louvre, mano nella mano con il suo piccolo Jean-Paul. Come il vero uomo in rivolta, Albert Camus, Belmondo adorava il calcio e il ciclismo («leggo l’Equipe tutti i giorni»), ma finì su un ring. E quel naso da pugile se l’era fatto con i colpi ricevuti, ma in una rissa di strada e non – come raccontava spesso – in uno di quei «nove incontri, di cui quattro vinti» che vantava nello score di ex peso welter. Appende presto i guantoni al chiodo e sente che la recitazione potrebbe essere la sua vera vocazione.

Jean-Paul Belmondo e Sophia Loren in La Ciociara del 1961 - ANSA/GUILLAUME HORCAJUELO

Ma all’Accademia d’arte drammatica lo fermano prima che faccia il suo ingresso con quell’aria sbruffona e indolente da parigino in gita. Scopre il teatro, ma anche sul palco non va oltre delle parti secondarie, quando di mezzo ci sono testi sacri, di Moliere o Racine. Studia anche Goldoni, ma la vita da commediante pressupone sacrificio, oltre a un talento che allora non era ancora stato capito. Il cinema, un corto, lo aiuta a mettersi al centro della scena con il Molière di Norbert Tildian. La vita da set gli mette contro un avversario, anzi l’antagonista, l’altro giovane ribelle Alain Delon. Marc Allegret in Fatti bella e taci li fa incontrare, ma non si tratta di uno scontro, anzi. «Il duello tra me e Delon l’ha inventato la stampa tanto tempo fa», ha raccontato proprio a Venezia nel 2016 quando lo premiarono con il Leone d’oro alla carriera. «Sono completamente devastato. Cercherò di resistere per non fare la stessa cosa tra cinque ore... Non sarebbe male se ce ne andassimo insieme. È una parte della mia vita, abbiamo iniziato insieme 60 anni fa», ha detto Delon alla notizia della morte dell’amico Bebel che volle al suo fianco nel ’70 in Borsalino. Film diretto da Jacques Deray e prodotto dallo stesso Delon che aveva visto crescere Belmondo, passato sotto la direzione da Oscar di Vittorio De Sica ne La ciociara, per poi diventare, fin dal 1962, l’attore di riferimento del “polar”, il poliziesco francese.

Quello stesso anno in Quando torna l’inverno, di Henry Verneuil, recita con Jean Gabin che alla fine delle riprese lo nomina suo erede: «Ragazzo, tu sei i miei vent’anni». Per sessant’anni questo istrione è passato dal film d’azione, alla commedia delle grandi firme amiche, Malle, Lelouche e Truffaut che lo volle in La mia droga si chiama Julie. In ogni personaggio Bebel ha continuato ad entrare ed uscire dal personaggio memore della prima grande lezione appresa da Godard.

Ha sempre giocato con il suo spirito anarchico e non a caso per mito aveva scelto l’irregolarissimo attore teatrale Michel Simon.
Alla fine, quando il sex symbol degli anni ’60 ha lasciato definitivamente il posto al mattatore, il teatro ha capito che Belmondo nei panni di Kean o di Cyrano era diventato irresistibile quanto la star del grande schermo. Ma il continuo cambio di registro e quella fama di indifferente e superiore al sistema aveva sempre irritato la suscettibilità della critica. Specie di quella militante che non gli ha mai dato la soddisfazione del riconoscimento di prestigio. Il primo e unico César l’ha ricevuto dopo quarant’anni di onorata e variegata carriera nel 1989, per Una vita non basta di Lelouch. «Il César, non mi sono neppure presentato a ritirarlo», ricordava con quel ghigno da simpatica canaglia, inconfondibile, come la camminata da gangster latino. Un hombre vertical che non si è mai piegato, neppure a quell’ictus che nel 2001 poteva stroncarlo. Si era rimesso in piedi, ed era tornato a recitare in teatro. L’ultimo atto d’amore è stato per De Sica nel remake di Umberto D., Un uomo e il suo cane di Huster. Anche in quell’ultima prova (nel 2008) la conferma che l’attore puro e crudo aveva mandato definitivamente in pensione il divo, ma mai il pugile. Dalla politica, al cinema, passando per il teatro il suo mantra è sempre rimasto lo stesso: «Posso non essere un modello da seguire, ma certo sono un combattente nato». Addio Bebel.