Agorà

Pittura. E l’artista riscoprì la carne

Giovanni Bonanno mercoledì 10 febbraio 2010
Lingua non estetica, bensì etica quella dell’arte sacra, che parla dell’uomo e della storia nel corso dei secoli. La sua forma è specchio delle stagioni in cui si manifesta, di stupori e sogni, delusioni e lutti. Riflette il modo di essere della gente e la sua esperienza religiosa, l’opera politica dei governanti, l’assolutismo di principi e re gli scontri intestini, le violenze e le guerre. Non può dirsi asettico il verbo di Giotto, che racconta del francescanesimo, dell’avidità dei mercanti e dei drammi della Chiesa. Non resta ai margini delle questioni civili e morali l’umanesimo toscano al tempo di Beato Angelico e di Savonarola. Dopo l’armonia infranta della classicità, di fronte ai dubbi della ragione, agli interrogativi dei fedeli e alle accuse di Lutero l’arte si sente coinvolta. Diviene partecipe delle lacerazioni della Riforma, constata il fallimento dei papi e la decadenza della Chiesa, sente l’angoscia di intellettuali e santi, registra il coraggio di Trento con il pauperismo di Borromeo, esperimenta con i sensi dei mistici spagnoli la contemplazione, con i santi francesi l’azione sociale, l’evangelizzazione con gesuiti e cappuccini. Nel tempo dell’inquisizione è testimone del travaglio di Cartesio e Pascal, dell’eticismo dei calvinisti, del libertinaggio di corte, di conflitti ideologici e spirituali, della purificazione giansenista e della sua deriva. Pittura della storia in cui portante è la funzione della fede, che si accompagna agli eventi e alle persone nel riscatto e nella catarsi. La forma della carne, si pone, nell’analisi e nell’esegesi dei dipinti, come forma della fede contenuta nel prologo giovanneo: Et Verbum caro factum est. Se Dio si fa uomo, se si offre allo sguardo nella realtà corporea, se da invisibile si rende visibile, allora assume evidenza il superamento della proibizione levitica, come accerta la Chiesa dei padri. Non ha motivo l’aniconia né tanto meno l’iconoclastia. Per questo l’ortodossia latina afferma, con i primitivi e i pittori del realismo e del naturalismo, l’urgenza di una iconologia che traduca la consistenza fisica di Cristo, della Vergine e dei Santi. Del resto è Tertulliano a sottolineare nell’apologetica che Cristo è carne, ossa e sangue come ogni persona. Non è nell’astrazione la verità, ma nella corporeità che la pittura cristiana rappresenta secondo i molteplici stili dell’arte. L’utilizzo delle icone sacre si rivela scelta estetica, memore del pulchrum costitutivo dell’idea di Dio, con finalità culturale e cultuale: ut devotionem pariant ac pietatem. Di fatto l’immagine si connota come predicazione visuale in consonanza con la Scrittura, comunicando un messaggio recepito dagli occhi e rielaborato dalla mente, attraverso un metodo antropologico che la Chiesa fa suo. Così l’arte si carica di valori trascendenti. La sua espressione subito risulta efficace, grazie a un linguaggio, insieme popolare e intellettuale, che parla al sentimento e alla ragione. Connessa con la filosofia e la letteratura, esplicative del Rinascimento e del Barocco, l’arte sacra entra in rapporto con la visione della carne, quale essenza dell’uomo. Mette in chiaro come non solo la carne del Logos sia sacra, ma ogni carne nella unidualità di materia e spirito. Ripercorre con l’innocenza della Bibbia la creazione di Adamo ed Eva, la nudità dei corpi, l’energia del sesso, la gioia della procreazione, l’erotismo del Cantico dei Cantici, l’elegia di Sara e Rebecca, la bellezza sensuale di Giuditta e Susanna, la passione di Maria di Magdala. Temi di un amore fisico, concepito dal Creatore, che formano la verità fenomenologica della natura, la sua corporeità sessuata e autocosciente.Illuminata dalla Scrittura l’arte riscopre la sacralità dell’uomo che desidera la donna e ne documenta l’amore con immagini di interiorità. Celebra con fantasia il corpo dei profeti e dei santi dell’Antico e del Nuovo Testamento e il corpo di mistici, martiri e fedeli che formano la Chiesa. Corpo quale asse prospettico dell’orizzonte terrestre e di quello celeste; corpo vivente nell’eros e nell’agape, consapevole di essere manifestazione della gloria divina. Sarebbe assurdo negare nella pittura dei secoli XVI e XVII la fragranza voluttuosa di angeli e santi, avallata da una teologia ardita, come quella dei gesuiti, che consente nella volta del Gesù di Roma l’apparizione della carnalità quale sacramento. Se in non pochi ambienti imperversa la sessuofobia, nella cerchia degli umanisti e dei biblisti è considerata consustanziale alla beatitudine la corporeità, senza la quale non potrebbe esserci né vita né grazia. Da qui scaturisce il sentimento sacro dei corpi e la visione delle Sante e della Vergine, nei cui volti gli artisti esprimono l’idea suprema della bellezza. Sa di poesia la nudità del piccolo Gesù, ma anche di dogma significante l’umanità. Profuma di paradiso la carne di Caterina nello sposalizio, di Agnese che carezza l’agnello, di Agata nel martirio, di Cecilia che suona l’arpa e di tante altre donne che sugli altari rifulgono di splendore. Pura è la sensualità di Maria che con il neonato in braccio si mostra a Betlemme, o quando esibisce il seno che allatta, o quando nella luce appare Immacolata, circondata da putti festanti. Soprattutto il Barocco non nasconde l’incanto della natura, sapendola opera di Dio. Anzi ne recupera il senso trascendente, esaltando il corpo come epifania del mistero. Con maggiore o minore penetrazione, tra il XIV e il XVII secolo, la pittura sacra, rifuggendo spesso da estetismi illustrativi, si connota di una teologia della carne, inquieta ed eroica, che testimonia come gli artisti si sentano poeticamente esegeti del Verbo, mentre ne traducono la presenza in immagini umane.