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60 ANNI DI DNA. La doppia elica che muove la vita

Luigi Dell’Aglio martedì 29 gennaio 2013
​Sessant’anni fa, il 28 febbraio 1953, Francis Crick e James Watson scoprono la doppia elica, cioè la forma del Dna, l’acido desossiribonucleico che contiene le informazioni genetiche indispensabili agli organismi viventi (la sua esistenza era nota fin dal 1869, ma se ne ignorava la struttura). La scena si svolge a Cambridge: appena certo di avere in mano la soluzione, Crick si precipita fuori dal laboratorio; svolta dietro l’angolo, ma non è diretto verso una sede accademica: fa irruzione nell’Eagle Pub e proclama a gran voce: «Abbiamo trovato il segreto della vita!». Racconta tutto nel libro La doppia elica (uscito nel 1968) James Watson detto Jim, l’altro scopritore. E riferisce che quel giorno, dando gli ultimi ritocchi al loro modello, i due scienziati si convinsero di aver intuito la struttura del Dna quando ne notarono l’estrema eleganza. «Il modello che presentarono racchiudeva veramente il segreto della vita. Per  quella scoperta – pubblicata su Nature Il successivo 25 aprile – Crick e Watson avrebbero ottenuto nel 1962 il Nobel», spiega Paolo Maria Vezzoni, dirigente dell’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Cnr e responsabile del Laboratorio di Biotecnologie dell’Istituto «Humanitas», collaboratore del Nobel Renato Dulbecco all’epoca del Progetto Genoma. Ma c’è un nome che non figura nel premio assegnato per la doppia elica: quello della biofisica inglese Rosalind Franklin. I risultati dei suoi geniali esperimenti erano stati mostrati a Watson e Crick; ma quando viene loro aggiudicato il Nobel, la donna è morta di cancro da 4 anni. «Il mito di Crick e Watson, considerati i dioscuri della genetica moderna, presenta lati avvolti nel mistero. Più di recente Watson è stato al centro di infuocate polemiche per le sue affermazioni sull’intelligenza delle donne e dei neri. Così si spiega l’avversione per la "rivale" Rosalind Franklin», nota Vezzoni. Malgrado tutto, però, furono eccezionali le ripercussioni  della scoperta, paragonata a quelle di Galileo e di Newton.In questi sessant’anni quali caratteristiche del Dna sono risultate più significative?«L’universalità e la semplicità del funzionamento. Apparve subito chiaro che la doppia elica forniva la base per la trasmissione dell’ereditarietà, perché la riproduzione di una copia identica del genoma diventava ovvia. Il passaggio dei caratteri ereditari, l’evoluzione dei viventi e la patogenesi delle malattie ereditarie si facevano in un colpo solo comprensibili. Inoltre la decifrazione del codice genetico (1961) permetteva di predire la struttura delle proteine studiando il Dna. Le tecniche d’indagine risultarono relativamente semplici: la biochimica del Dna era molto più agevole di quella delle proteine».Quali vantaggi pratici ha portato la scoperta?«Nel 1973 nasce l’ingegneria genetica. Un’ulteriore fortuna del Dna è il fatto che può essere facilmente studiato e addirittura maneggiato. È una molecola molto resistente e la sua struttura a doppia elica fa sì che i nucleotidi, i mattoni di cui è costituita, possano appaiarsi facilmente con i loro complementari. Lo studio del Dna si coniugò con quelli dei microbiologi che studiavano alcune proprietà dei batteri: l’ingegneria genetica parte in questo modo. Essenzialmente è un sistema di "taglia e cuci" che consente di mettere insieme pezzi di Dna producendo "geni" nuovi. Dato che il codice genetico è praticamente universale, questi geni possono essere trasferiti in un batterio che – per così dire – li adotta. Il gene può essere visto come l’istruzione contenuta in un manuale, che viene eseguita dal batterio. Si è ottenuta in tal modo l’insulina umana all’inizio degli anni Ottanta: risultato spettacolare che ha reso popolare il Dna perfino tra gli investitori finanziari. Anche se bisogna ammettere che successi come quello non sono stati molto frequenti».Ma tutti si aspettano ricadute risolutive proprio per la salute. «Nella seconda metà degli anni Ottanta ha inizio il dibattito sull’importanza del "sequenziamento" del genoma umano (si deve accertare l’ordine in cui sono disposte le "lettere" del codice genetico). Nel 1986 Dulbecco, che aveva avuto il Nobel per lo studio dei tumori, lancia un suggerimento dalla rivista Science: dal momento che il cancro è una malattia del Dna, conoscere tutte le mutazioni presenti nei tumori porterebbe a enormi progressi nella cura. Il Progetto Genoma, inizialmente osteggiato da molti, viene finanziato dai governi. L’entusiasmo culmina nel 2000 quando – con un annuncio forse un po’ prematuro – dalla Casa Bianca Bill Clinton e Tony Blair fanno sapere che il lavoro è completato. Il Progetto ha aperto la via all’isolamento dei geni responsabili di migliaia di malattie. Oggi, con i costi di sequenziamento diventati molto più bassi, persino l’analisi dell’intero genoma è un metodo di diagnosi entrato nella realtà, sia pure nei centri più avanzati e per i casi più difficili».Alcune di queste scoperte tuttavia hanno marcati risvolti etici e provocano forti preoccupazioni.«L’ingegneria genetica è uno strumento molto potente. Negli anni Ottanta nascono anche i primi animali transgenici e vengono studiate le cellule staminali embrionali del topo. Nel 1997 è la volta della pecora Dolly, nel 1998 si ottengono le prime cellule staminali embrionali umane, nel 2006 quelle pluripotenti indotte. Nel 1978 aveva visto la luce la prima bambina concepita in provetta e il connubio tra ingegneria genetica e manipolazione embrionale negli animali apre prospettive che sono interessanti per i ricercatori ma non trovano un consenso generale. La società è chiamata a dare un giudizio su ciò che è perseguibile. Ma nessuno chiede che siano ignorate le possibilità che la genetica offre».Sembra di capire che in sessant’anni tutte le scoperte siano state compiute fuori dall’Italia.«Non mi viene in mente nessun grande contributo dato dall’Italia alla genetica moderna. È bene non illudersi: siamo in serie B; dal 1906 alla nostra medicina non viene dato un Nobel per ricerche effettuate in Italia. Ricordo un commento di Dulbecco quando, alla fine degli anni Novanta, non venne più finanziato il Progetto Genoma: "Non si capisce perché, ma in Italia le cose non funzionano. Ci vorrebbe una rivoluzione". Quanto a sensibilità per la ricerca, non vedo nessun cambiamento all’orizzonte».