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Filosofia. Dopo l'antropocentrismo: equilibrio cercasi tra uomo e altri viventi

Giovanni Scarafile lunedì 29 gennaio 2024

Nella natura

«Che ne diremmo se le razze più veloci imponessero a tutti gli altri animali di misurarsi nella corsa rendendo schiavi dei vincitori gli animali più lenti?». Che cosa accadrebbe, a quel punto, tra un uomo e un’antilope? Era il 1989, quando Franco Cassano, in Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, provava a superare i limiti del teleologismo antropocentrico, la concezione secondo la quale tutti gli eventi naturali e la storia dell’universo sono finalizzati al servizio dell’essere umano o alla realizzazione dei suoi fini. Lo studioso barese, immaginando mondi possibili, cercava un nuovo equilibrio in grado di bilanciare il riconoscimento della singolarità del nostro modo di essere con l’avvertimento che essa è solo una degli infiniti modi di essere e di guardare il mondo.

Qualche anno più tardi, sempre nell’orizzonte del pensiero meridiano, avendo ben intuito che la sfida che veniva profilandosi riguardava lo statuto del soggetto, Mario Signore ne Lo sguardo della responsabilità immaginava un «antropocentrismo relazionale», proponendo un ripensamento non solo dell’etica ma anche del nostro patrimonio ontologico-metafisico.

Queste voci “profetiche”, che hanno suscitato tra gli intellettuali significativi dibattiti, non sono riuscite ad invertire quelle tendenze perverse che negli ultimi venti anni hanno portato alla distruzione degli habitat naturali, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento ambientale e ai cambiamenti climatici, allo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, alla estinzione di specie animali e vegetali ed, infine, alla mancanza di sostenibilità nelle pratiche economiche e industriali.

Che cosa hanno in comune questi disastri se non l’antropocentrismo autoreferenziale e lo specismo? L’antropocentrismo autoreferenziale è la concezione che posiziona l’uomo al centro del cosmo attribuendo agli altri enti, inclusi gli ecosistemi naturali, un valore meramente strumentale rispetto agli interessi umani. Lo specismo, da parte sua, rappresenta una forma di discriminazione basata sulla specie biologica. Tale concezione sostiene la superiorità intrinseca degli esseri umani rispetto alle altre specie animali, giustificando l’uso di queste ultime per fini umani. Questa ideologia è stata la forza motrice dietro pratiche quali l’allevamento intensivo di animali, la sperimentazione su di essi e la distruzione di habitat naturali, provocando sofferenze estese e morte di un vasto numero di animali non umani.

Mentre si assisteva a questo scempio, le voci degli intellettuali non sono certo mancate. Si pensi ai recenti progressi nel campo della zoologia cognitiva, guidati da ricercatori come Marc Bekoff e Frans de Waal, che hanno messo in luce la presenza di comportamenti, intuizioni e capacità intellettuali negli animali che sfidano l’idea della superiorità umana. Parallelamente, nel settore della botanica, la ricerca di Stefano Mancuso e altri nel campo della neurobiologia vegetale ha rivelato che anche le piante possiedono capacità sensoriali e di comunicazione sorprendentemente sofisticate. Questo ha portato a rivedere il concetto di intelligenza e vita, ampliando ulteriormente il dibattito etico su come gli umani interagiscono con le altre forme di vita.

A questi temi è dedicato l’ultimo numero degli Annali del Centro Studi filosofici di Gallarate, intitolato “Umani e altri viventi”, pubblicato da Morcelliana, con la cura di Ennio de Bellis. Nel volume sono raccolti numerosi saggi sviluppati a partire dalle relazioni esposte nel corso del 77° Convegno del Centro di studi filosofici di Gallarate.

I termini della questione sono evidenziati con precisione chirurgica da parte di Francesco Totaro, presidente della Fondazione, nella presentazione del volume, laddove spiega che si tratta di recuperare un nuovo punto di equilibrio: «possiamo farci interpreti dei “diritti” della natura, considerando i suoi beni, sia individuali sia collettivi – dagli animali alle piante, ai boschi e alle foreste, ai fiumi, ai laghi e alle montagne – quasi-persone le quali parlano a noi, certamente per mezzo del nostro ascolto e del nostro linguaggio, dei loro bisogni, che sono irriducibili ai bisogni strettamente umani. È evidente in ogni caso che i bisogni degli animali e delle piante possono essere protetti solo grazie alla intelligenza e alla responsabilità che gli umani sono capaci di assumere nei loro confronti».

Totaro è particolarmente efficace nel ricordare la necessità di non smarrire il baricentro, mettendo in guardia dal rischio di cadere nel biocentrismo e nella biolatria. Quest’ultimi, infatti, benché si propongano come antitesi all’antropocentrismo, possono portare a una visione altrettanto riduttiva che sottovaluta la specificità e il ruolo dell’essere umano nell’ecosistema. Una visione più equilibrata dovrebbe invece riconoscere il valore intrinseco di tutte le forme di vita, pur mantenendo una consapevolezza del ruolo unico e delle responsabilità dell’umanità nel modellare e preservare l’ambiente naturale, sottraendosi al rischio di quella antropologia dell’autoflagellazione piuttosto in voga in alcuni ambienti.

Per rendere effettive le analisi, ovvero per superare la dicotomia tra pensare e agire, è fondamentale, secondo Totaro, adottare una prospettiva “inter” e “transculturale”. Le sfide emergenti, infatti, richiedono un approccio che oltrepassi i limiti culturali tradizionali e promuova una comprensione e una collaborazione più ampie. In tal senso, andrebbe osservato come la collocazione editoriale corrente di questo volume, mirata a un pubblico di nicchia, rischi di non valorizzare appieno le ricche ricerche che esso contiene. Una svolta verso un’edizione bilingue, curata da un editore dal respiro globale, potrebbe garantire una disseminazione delle tematiche trattate più estesa e di maggior impatto. Un simile cambiamento sfiderebbe anche i tradizionali schemi di condivisione del sapere, i quali spesso si scontrano o con metodologie obsolete o con barriere linguistiche e culturali non più sostenibili in un panorama di conoscenza così a pertamente globale, riecheggiando l’attenzione all’internazionalizzazione e all’interdisciplinarità promossa dall’Anvur e scrupolosamente richiamata proprio nel volume.