Agorà

Teatro. “Donne in guerra”, la forza di rinascere

Michele Sciancalepore mercoledì 29 settembre 2021

“Donne in guerra” di Laura Sicignano. Sul palco del Teatro Stabile di Catania Federica Carruba Toscano, Egle Doria, Leda Kreider, Carmen Panarello, Barbara Giordano e Isabella Giacobbe

Duemilaquattrocentotrentasei anni fa si chiamavano Cassandra, Andromaca, Ecuba. Erano Le Troiane, immortalate da Euripide nel 415 a.C.. Erano le schiave assegnate ai vincitori dell’epica estenuante e sanguinosa guerra di Ilio. Il tragico greco versificò il coraggio del sesso tutt’altro che debole capace di accettare la propria funesta sorte e di marciare sulla propria pena. 77 anni fa si sarebbero potuto chiamare Maria, Zaira, Milena, Irene, Anita, Signora De Negri. Così le ha nominate infatti Laura Sicignano nel creare, con la collaborazione autoriale di Alessandra Vannucci, sei figure femminili che nell’estate del 1944, in un’Italia travolta dalla guerra civile in cui regnavano caos, smarrimento, fame, martiri e delazioni, vigliaccherie ed eroismi, si ritrovarono sole come tante donne senza più i loro uomini, scappati o trucidati, deportati o imboscati, a dover sopravvivere, a barcamenarsi fra strazi e macerie, a suturare lacerazioni, a inventarsi soluzioni.

A distanza di 25 secoli e di 1300 chilometri posseggono però lo stesso umano e commovente eroismo delle mitiche e iconiche Troiane. Sono comunque donne che si muovono a volte furiosamente, altre tristemente, nella terra desolata e devastata dalla furia bellica maschile, ma mai passive perché ognuna di loro si assume la responsabilità di una scelta, giusta o sbagliata, vitale o mortale. Sono Donne in guerra. E questo è il titolo di una pièce che ha in realtà 13 anni di vita, anche prestigiosa (menzione Premio Ubu, Premio Fersen 2015 per la regia, Premio Les Eurotopiques 2014), che ha debuttato lunedì al Teatro Stabile di Catania e che avrà oltre un mese di repliche fino al 29 ottobre. Ma perché battezzare la tanto agognata ripartenza stagionale, che nell’odierno immaginario collettivo significa buttarsi alle spalle paralisi e frustrazioni e slanciarsi verso un rinnovato futuro, riesumando un testo che viene dal passato e guarda storicamente indietro?

Laura Sicignano, direttrice dello Stabile, nonché coautrice e regista della messinscena, è molto determinata e fiduciosa sulla bontà della sua scelta: «Perché è uno spettacolo che chiama in causa direttamente le coscienze di noi tutti oggi. Perché sono storie che affrontano l’eterna mistica e misteriosa questione della distruzione e ricostruzione, della morte e rinascita, della ciclicità dell’essere. E infine anche perché, dopo tanta schermata distanza, altrettanta virtualità forzata, dopo questa avvilente bolla di isolamento, avevamo urgenza di un incontro, di un abbraccio, di una fisicità molto forte, un’immersione emotiva che si può avere solo attraverso un rapporto personale».

In effetti in Donne in guerra la dimensione relazionale fra attrici e spettatori è imprescindibile e predominante. Il pubblico viene accolto, indottrinato sulla dinamica e sulla prossemica della rappresentazione, accompagnato nella fruizione e introdotto in uno spazio scenico stravolto non solo ovviamente in seguito all’abbattimento della quarta parete ma soprattutto perché l’azione si dipana in tutta la verticalità dell’edificio teatrale, prima su una pedana e su cinque bauli, poi lungo un binario. I fruitori dell’evento sono prima in piedi, poi seduti, sempre comunque gli uni di fronte agli altri con in mezzo le interpreti che li considerano ora testimoni, ora confidenti, ora compagni di viaggio con cui condividere sguardi, piccoli oggetti, furtivi ma significativi contatti, strazianti svelamenti, spiazzanti confessioni in un’atmosfera di calda intimità resa suggestiva anche grazie al sapiente disegno luci di Gaetano La Mela.

In una dinamica narrativa sempre tesa, che alterna momenti di vibrante dialettica a monologhi mai dilatati, bensì concettualmente densi o drammaticamente agiti, si giunge pertanto a una progressiva conoscenza delle condizioni e pulsioni delle sei donne. C’è Milena, la giovane e ingenua fascista travolta e tradita da un’ideologia mortifera e mortale, la volitiva Maria che combatte la sua disperata solitudine con speranzosi ideali, la signora De Negri, paradigma di una borghesia polverosa, vetusta e senza futuro, l’adrenalinica partigiana Anita, la struggente Irene, paralizzata nella sua adolescenza lacerata e violata, la saggia Zaira, la levatrice che dà alla luce nel buio della morte. Sono tutte segnate dal dolore e dall’orrore, tutte vanno verso l’ineluttabile tragica fine nude, ormai prive anche di lacrime ma non spoglie della loro dignità.

Evidente l’intenzione autoriale e registica di volere offrire delle narrazioni, peraltro frutto di testimonianze dirette raccolte dal vivo, dal carattere universale e classico, come la stessa Sicignano svela: «Non volevo cronaca, né minimalismo. Rappresentano le “donne in guerra” di oggi e non faccio facili riferimenti alle drammatiche vicende dell’Afgha- nistan, ma a tutte quelle donne che non hanno ascolto, che non hanno voce». Un obiettivo che sarebbe pienamente centrato se i personaggi non fossero, anche esteticamente, fortemente radicati e conficcati in quel preciso contesto bellico assumendo una connotazione storica e iconica molto circonstanziata. Non mancano però momenti in cui il testo si nutre di respiri esistenziali senza tempo come nell’evocazione del Salmo 21 di Davide («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?...») ed echeggiano le mai sopite domande sul silenzio e sull’assenza di Dio. Non difetta affatto nemmeno l’interpretazione delle sei attrici, tutte splendidamente e pienamente calate nei personaggi, in perfetto equilibrio emotivo, come da precisa esigenza e impostazione registica.

Tutte da nominare: Federica Carruba Toscano, Egle Doria, Leda Kreider, Carmen Panarello. Una menzione speciale per Barbara Giordano che con la sua Anita riesce a trasmettere la vitalità oltre il dramma (forse anche perché recita con la vita dentro in quanto è incinta per davvero e non solo per finzione) e per la giovane Isabella Giacobbe che nei panni di Irene si rivela una stupefacente acrobata delle emozioni che perigliosamente corre sul filo del pathos senza mai scivolare nel patetismo. All’insegna come sempre dell’equilibrio, al servizio della verità della parola e mai soverchiante è infine la regia di Laura Sicignano che, un po’ come quel filo di platino teorizzato dal grande poeta T. S. Eliot, catalizzatore in grado di innescare una reazione chimica senza contaminare gli elementi, fa sempre più del sacrificio di sé e della lotta alla vanità una missione anche in teatro.