Agorà

La Letteratura. La donna mobile di Celine e Walser

MAURIZIO CECCHETTI sabato 27 febbraio 2016
La donna che amò forse più intensamente, Elisabeth Craig, lo mollò proprio quando aveva appena pubblicato il capolavoro che rovesciò il tavolo da gioco della letteratura francese. «Louis... suractif », diceva agli amici con cui si usciva mentre il suo innamorato non la degnava di uno sguardo, tutto preso dal Voyage au bout de la nuit, che in effetti nel 1932 fu una specie di terremoto per le lettere francesi. Lei, ballerina americana, si sentiva délaissait, trascurata, lasciata sola, in balia della propria voglia di vivere, della passione per un mondo di cui Louis-Ferdinand intuiva invece il prossimo crollo, nonostante le luci notturne del cabaret parigino (che nel gusto certo non disdegnava, anzi si potrebbe dire che si coglie un certo cabarettismo nella scrittura celiniana). Disse che invecchiava terribilmente accanto a lui, che le pareva di vivere come una novantenne, e possiamo capire cosa intendesse la ballerina piena di fascino che lo scrittore aveva conosciuto alla metà degli anni Venti, mentre era a Ginevra per missione della Società delle Nazioni. L’aveva notata ferma davanti alla vetrina di una libreria che guardava i libri di storia. «Dunque voi amate questi personaggi», le disse per attaccare bottone. Lei rispose che non sapeva nemmeno chi fossero, ma che le piaceva questo genere di libri. Allampanato, un po’ dandy, un tipo di classe le rivolge la parola in modo curioso; lei, che in quella città si annoia un po’, gli confessa di essere una ballerina, venuta in Svizzera a curarsi per un accesso di tubercolosi. È bellissima e dai mopdi seducenti, lui la chiama quasi subito Lizbeth. Si rivedono la sera stessa e quando Louis si fa annunciare col classico biglietto di visita, il padre della ragazza legge e commenta: «Ah, lei lavora alla SDN, questo va bene», ma poi telefona alla Società delle Nazioni per verificare che sia proprio così. È il grande amore. E lui certo non è una mammola, tende a esagerare quando parla di sé, è un reduce della Grande Guerra, ferito, che ha contratto in quella triste esperienza un acufene cronico per una granata scoppiata troppo vicino a lui. Louis è medico, segue le idee di Semmelweis, ma ha anche velleità di scrittore. Tornati a Parigi iniziano il loro ménage; lei aspira a entrare nei Ballets Russes, quelli di Djagilev, la più prestigiosa compagnia teatrale dell’epoca. Lui, che sta scrivendo una pièce teatrale, L’Eglise, aggiunge un capitolo dove la figura trionfale è tagliata sulla sua Lizbeth. La storia durò otto anni, finché lei decise di tornarsene in America, dove sposò un uomo d’affari di origini ebraiche. Lui nel 1934 prese la nave per andarla a rivedere, ma lei finse quasi di non riconoscerlo. Coda tra le gambe, Céline accusò il colpo. colarissima damnatio memoriae. In quella “terra di mezzo”, anni cruciali per l’Europa, Céline conobbe sei donne che gli furono vicine, qualche volta amanti. I carteggi con loro sono raccolti nel libro Lettere alle amiche appena tradotto da Adelphi. La premessa del curatore, Colin W. Nettelbeck, specialista di Céline e della letteratura francese fra le due guerre, in poche pagine spiega l’utilità di questi epistolari: cadono nel periodo che vede la trasformazione del dottor Louis-Ferdinand Destouche in Céline; un passaggio esistenziale, riflesso anche delle inquietudini storiche dell’epoca che s’intuiscono fra le righe; infine, consentono di conoscere l’intimità di un uomo che fra reticenze e «verità molteplici », talvolta soltanto architettate menzogne volte a destare l’attenzione pubblica, da bravissimo propagandista di se stesso che fu Céline. Chi sono le sei predestinate? Erika Irrgang, studentessa tedesca poi diventata scrittrice; N., ebrea austriaca, ginnasta e frequentatrice degli ambienti psicoanalitici viennesi; Évelyne Pollet, letterata belga; Karen Jensen, ballerina danese girovaga (che doveva custodire il tesoretto che Céline le aveva affidato e che avrebbe dovuto assicurargli la sopravvivenza in caso di fuga, i lingotti d’oro frutto dei diritti d’autore, che dalla Jensen, sparirono senza lasciar traccia. Questa la lezione che Céline trasse dalla sfortunata storia: “mai mettere i propri soldi nelle mani di una donna”); Lucienne Delforge, pianista francese che fece una carria internazionale; Elisabeth Porquerol, giornalista francese (che ebbe con lo scrittore rapporti di semplice amicizia).  Céline non fu un volgare dongiovanni, scrive Nettelbeck, per lui le donne erano L’altra donna della sua vita, Lucette Almansur, nata nel 1912, avrebbe oggi 104 anni, dico avrebbe perché dopo aver festeggiato il secolo di vita, non se ne sente più parlare e qualcuno sostiene che sia morta un paio d’anni fa, ma non se ne trova notizia. Anche Lucette, con cui visse gli ultimi venticinque anni, condividendo le disavventure della segregazione danese e il processo che avrebbe potuto costare a Céline la pena capitale (per tradimento della patria, non per antisemitismo), era ballerina. Queste due donne rappresentano i momenti chiave della sua vita: l’uscita del Voyage e, nel 1937, quello di Bagatelles pour un massacre, il feroce pamphlet antisemita e antisovietico che ha condannato Céline a una parti- l’espressione di una energia pura, primaria, attraverso cui poteva «cogliere il mondo in modo più diretto e franco che non attraverso la parola». Il prode Louis, che si era arruolato giovanissimo nei corazzieri a cavallo, e fanfaronava di imprese epocali nella Marna, è un personaggio contraddittorio e non solo per le sue visioni politiche dopo il 1937, «fatte di pregiudizi e d’intuizioni piuttosto che di meditate opinioni», dice Nettelbeck. Giustamente, il curatore nota che quelle opinioni, che oggi rendono Céline un oggetto intrattabile da chi non voglia generare sospetti di simpatie antisemite, non ne fanno un caso unico, «se le consideriamo nel contesto del clima politico francese fra il 1934 e il 1939» (e basterebbe ricordare gli scritti «antigiudaici» di Simone Weil a conferma di questo). Con le donne Céline appare a volte cinico, più spesso affettuoso, ma anche paternalista, brutale nelle parole («a volte decisamente osceno»), tenero e divertente e poi feroce e iroso: «nonostante tutto, vulnerabile ». La contraddizione è il suo stile: nella vita, nelle idee, nella scrittura, nei giudizi, nei sentimenti. E alla fine, appare irrisolto umanamente, ma lucidissimo per la poetica letteraria. Scrittore più distante da lui, non potrebbe essere lo svizzero Robert Walser, di cui Adelphi ristampa a distanza di cinquant’anni un breve «divertissement» anch’esso rivolto al femminile: Sulle donne. Poche decine di pagine cariche di ironia, leggerezza, giochi linguistici, con personaggi immaginari come una vedova, una ragazza da sposare, la Valente, ma dalla «lingua un po’ troppo sciolta» ergo..., Erna a cui il poeta da giovane dedicò i suoi versi come immagine di bellezza e giovinezza (da cui una «Erninfatuazione»), ma in realtà ombre che sospingono lo scrittore in una passeggiata visionaria e irriverente che svela la trasparenza finta dell’epoca – la stessa allucinazione che si ritrova nei quadri di Holder quando il bianco prende la scena – e produce una letteratura capace di mordere senza sbranare, di colpire con un motto di spirito, secondo una struttura calibratissima, disegno di una perfetta ragnatela mentale. E Walser suggerisce la regola quando si ha a che fare con le donne: «È bello e utile conoscerle, ma è parimenti utile, e se è il caso ancor più bello, grazie all’esatta cognizione delle loro peculiarità, soccorrerle e servirle...». Céline forse non l’aveva capito; ma sarebbe d’accordo con un’altra verità di Walser: «Chi diffida lusinga sempre». Sarà per questo che nella vita cercò spesso di rendersi urticante e osceno, assumendo l’aspetto di un uccello del malaugurio.