Agorà

Medioevo. Donne sull'orlo di una crisi di ribellione

Franco Cardini mercoledì 30 agosto 2017

Miniatura tardomedioevale. Christine de Pizan mentre legge nella "città delle dame"

Evasione: È una parola magica dei nostri giorni. Evadere dalla noia, dalla monotonia, dall’insoddisfazione; magari dalla famiglia, dal posto di lavoro. Noi occidentali sentiamo di continuo la voglia di cambiar area: abbiamo fondato la modernità sul principio della ricerca della felicità e magari abbiamo trovato il benessere, l’agiatezza: ma non siamo riusciti a essere felici. Per gli altri, i migranti per esempio, la cosa è diversa. Lì si tratta di scampare alla guerra, alla fame, alla violenza. Ma fuggire la noia o lo spleen è un conto: fuggire la fame o la morte un altro.

Anche nel medioevo, per esempio, si poteva fuggire. Fuggivano certo, se e quando ce la facevano, prigionieri di guerra o comunque reclusi volontari. Si poteva fuggire dalla propria condizione. A volte, dal proprio sesso o quantomeno dal proprio “genere”, come accadeva alle donne che vivevano recluse sì, ma in monasteri maschili e vestite da uomo (i casi non erano soltanto letterari...). Ma fuggire dal proprio sesso significava fuggire da un’inferiorità, da uno stato di soggezione, da una condizione di per sé immodificabile in quanto sentita “naturale” e giudicata collegata all’ordine cosmico e divino: quella della donna, in una società che fermamente credeva nel Vero Dio ch’era anche Vero Uomo.

C’era stata una donna per la quale l’appartenenza al proprio sesso si era palesata come un dono immenso: l’aver concepito e partorito Iddio, senza per giunta rinunziare alla verginità. Per le altre tuttavia, vista la gerarchia dei valori e delle attività vigenti, è evidente che in una società almeno originariamente gestita da guerrieri e da sacerdoti, l’esser esclusa dall’una e dall’altra professione equivalesse a inferiorità di fondo.

Come uscirne? Maria Serena Mazzi non è dimentica del suo passato equilibratamente marxista né dissimula le sue posizioni altrettanto educatamente femministe: ciò sostiene, ma non inficia il carattere della sua ricerca dedicata alla condizione femminile. Un tema che ricorre in molti fra i suoi dei libri e al quale, nello specifico, ha ora dedicato Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo (Il Mulino, pagine 180, euro 14).

E non è cosa tropo facile scrivere di donne nel Medioevo: per un problema di fondi, anzitutto. È vero: c’erano donne che scrivevano. Famosi gli epistolari: Eloisa, Caterina da Siena, Margherita Datini, Alessandra Macinghi Strozzi, Lucrezia Tornabuoni; qualche poetessa, come Compiuta Donzella; le mistiche, come la misteriosa Ildegarda di Bingen, alcune pellegrine, quali Egeria; almeno una geniale e ver- satile poligrafa, Christine de Pizan. Ma di solito erano gli uomini a scriver di loro e per loro conto, lo volessero esse o no.

Oggi, invece, come nota la stessa Mazzi, scrivere di donne sembra essere «affare di sole donne», forse storici del diritto esclusi, «quasi si trattasse di percorrere le vie segrete di un mondo misterioso a sé stante, recinto sigillato di cui non si possiedono chiavi né si conoscono codici d’accesso, a meno di non condividere il genere». Nel Medioevo, viceversa, erano di solito gli uomini: «biografi, notai, pubblici ufficiali, magistrati, giudici dei tribunali ». Ma perché, e in quanti e quali modi, una donna poteva fuggire dalla sua condizione di subordinata, di repressa, d’“inferiore”? Ed era, un fuggire da se stessa o al contrario un cercarsi, magari perfino un trovarsi?

Nel Quattrocento, Margery Kempe che, dopo una vita segnata dal matrimonio e dalla maternità ma anche da sogni e visioni, decise con semplicità di andarsene: dalla sua contea di Norfolk raggiunse Venezia, poi la Terrasanta, quindi Roma; rientrata in patria e affrontato il giudizio partì di nuovo, stavolta per l’Europa continentale. La sua fu un’esperienza fortunata: a differenza di altre che pagarono il loro bisogno di predicare e di comunicare ad altri la propria esperienza salendo sul rogo, come Margherita Porete e Giovanna d’Arco.

C’erano poi le donne, magari giovani o giovanissime, le malmaritate, come santa Godelive obbligata a un matrimonio con un uomo che aveva dato subito segni di disprezzarla e dal quale, alla fine, era stata fatta uccidere. E quelle che riuscivano a rompere il cerchio infame di un matrimonio obbligato: come Radegonda, figlia del re di Turingia ch’era stato sconfitto dal merovingio Clotario I re dei franchi ed era diventata ancora bambina ostaggio del vincitore il quale, invaghitosene, l’aveva costretta alle nozze. Ma era un violento e un assassino. Radegonda cercò di liberarsene rifugiandosi presso il vescovo di Noyon e chiedendogli protezione; quindi, date le esitazioni del prelato, fuggì a Poitiers dove fondò un monastero rimanendoci fino alla morte, nel 587, ventisei anni dopo quella del marito e persecutore.

C’era appunto il grande capitolo, e la grande risorsa, del chiostro: monastico o conventuale che fosse, e che magari si poteva raggiungere anche come terziaria, come “pinzochera”. La condizione femminile poteva essere dura quando si veniva “maritate a forza”, sulla base di nozze combinate senza sentir nemmeno il loro parere: ma era dura a sopportarsi anche, al contrario, quando si era costrette a restare nella casa paterna perché la famiglia non poteva permettersi la dote o quando per un motivo o per un altro non si affacciava all’orizzonte alcun promesso sposo.

Vale la pena di meditare sul caso di Ginevra di Giovanni Cressi che, rimasta vedova e d’altronde priva di patria potestà in quanto le era morto il padre aveva recuperato la dote, decise il 21 dicembre del 1494 si sposare in seconde nozze il ragguardevole cittadino pistoiese Iacopo di Antonio Rospigliosi. Recatasi a casa della madre il giorno dopo per annunziarle a cose fatte l’accaduto (aveva motivo di ritenere che essa non sarebbe stata d’accordo), si ritrovò da questa e dalla famiglia picchiata a sangue, sequestrata e fatta chiudere in convento: il vescovo, che ce l’aveva col Rospigliosi, legittimò l’accaduto.

Il contrario di quel che avvenne a Tancia Bandini, che rimasta vedova voleva entrare in convento ma il padre la obbligò a risposarsi ignorando anche gli atti notarili che la legittimavano. Ovviamente il monastero o il convento erano rifugi obbligati, nei quali per vari motivi si rinchiudevano fanciulle o donne per il tornaconto o l’arbitrio della famiglia e contro al volontà delle interessate, che però, quando non si piegavano all’ingiustizia, avevano varie vie di fuga.

A volte le monache o suore fuggitive, catturate di nuovo, venivano riammesse nel luogo dal quale erano scappate: ma non sempre ciò era approvato dalla società. Anche la stregoneria era una via attraverso al quale certe donne potevano sfuggire alla loro condizione? Certo, a giudicare dai processi che ci sono rimasti (non molti: questo è un libro di storia medievale, e fino al Trecento la “caccia alle streghe” non è cominciata), le accusate – venissero o no condannate per un delitto che di solito restava di giurisdizione civile se non se ne riconoscevano gli estremi dell’eresia, nel qual caso passava all’inquisizione – erano povere donne che in passato si erano arrangiate, magari facendo l’ostetrica (e la procuratrice d’aborto) oppure la prostituta, e che rimaste vecchie e prive di marito si erano riciclate come guaritrici o come “fattucchiere” (due attività molto vicine fra loro). Peccato che talvolta finisse col rogo.

Infine, ecco la lunga teoria di chi cercava di fuggire da un padrone violento, manesco, spesso decisamente malvagio, che le trattava come cose. Il che, peraltro, era consentito dalla legge: che ammetteva la schiavitù di donne non cristiane. La schiavitù domestica è un doloroso capitolo della vita quotidiana medievale. Quanto al frutto delle frequentissime unioni sessuali tra padroni e schiave, evidentemente non sempre da quest’ultime accettate con piacere, di solito i nati da esse venivano affidati alle molte istituzioni caritatevoli. Nel medioevo cristiano, spesso un bambino non voluto – se non eliminato mediante aborto – non subiva una sorte diversa da quella che, al giorno d’oggi, c’indigna quando ed esserne vittima è un povero gattino.