Agorà

Storia. Cento anni fa il martirio di don Minzoni, antifascista perché cristiano

Roberto Righetto mercoledì 23 agosto 2023

Don Giovanni Minzoni

Giovanni Minzoni, Lorenzo Milani e Tonino Bello: tre don di cui in questo 2023 ricorre un anniversario importante e che giustamente sono celebrati. Tre preti scomodi, ciascuno a suo modo, non sempre capiti dalla loro stessa Chiesa, anzi spesso ignorati. Tutt’e tre avevano capito che la Chiesa doveva cambiare, abbandonare lo stile prettamente clericale che l’ha contraddistinta lungo tutto il secolo scorso, tornare alle origini per sapere ancora parlare agli uomini e alle donne del mondo contemporaneo.

Il primo, don Giovanni Minzoni (1885-1923), fu parroco ad Argenta, provincia di Ferrara e diocesi di Ravenna, dall’altra sponda del Reno, una terra tradizionalmente socialista e repubblicana. È stato chiamato il “Matteotti cattolico” da Alberto Comuzzi in una biografia uscita dal Messaggero Padova nel 1985, la quale veniva dopo il primo studio a lui dedicato, scritto da don Lorenzo Bedeschi nel 1973 e pubblicato da Bompiani. Ora Andrea Bosio ricostruisce tutta la vicenda umana del sacerdote ucciso dai fascisti nel volume Giovanni Minzoni. Terra incognita. Martirio, educazione, antifascismo (Effatà, pagine 224, euro 16; con prefazione del vescovo di Savona Calogero Marino e postfazione del presidente del Masci Massimiliano Costa). Se don Minzoni fu oppositore del fascismo «lo fu – disse l’arcivescovo di Ravenna Ersilio Tonini - perché prete, perché pastore d’anime, in virtù della sua fede». Se fu giustiziato da alcuni ras locali è perché aveva osato contrapporre il modello cristiano di educazione dei giovani a quello del regime appena nato e non aveva avuto alcun timore a criticare i metodi violenti del fascio locale.

Appena arrivato ad Argenta, nel febbraio 1910, si mette a lavorare con i giovani: dà vita a un nuovo ricreatorio, istituisce un doposcuola, cura la nascita di una biblioteca e di un teatro parrocchiale. È convinto che la Chiesa debba aggiornare metodi e contenuti. Osserva la partecipazione di tante persone alle attività della Camera del lavoro: sono anni di grandi fermenti sociali in quel territorio e in tutt’Italia, di scioperi nella fase della prima vera industrializzazione del Paese, ma anche nelle zone rurali, per reclamare migliori condizioni lavorative. E sono gli anni che seguono all’enciclica Rerum novarum che per la prima volta interviene sulle storture del capitalismo e sulle sirene del socialismo, chiamando i cattolici italiani all’impegno sociale. Don Minzoni risponde, simpatizza in età giovanile per Romolo Murri e per le sue idee di democrazia, legge i libri di Toniolo così come, pochi mesi prima di essere ammazzato, si iscrive al Partito popolare di don Sturzo.

Nel Diario, pochi giorni dopo l’arrivo ad Argenta, si può leggere una prima critica alla Chiesa del tempo: «Pensando al nostro clero, certo v’è poco da lusingarsi, che sappia corrispondere alla sua attuale missione. Giovani troppo spinti e indipendenti e quindi unità disgreganti; vecchi intransigenti pessimisti e quindi zavorra troppo pesante; sacerdoti interessati solo dell’oggi e della tavola, questi, mio Dio, sono gli alter Christus! Che devono rinnovare la società!». Un anno dopo scrive della sua disillusione: «Ormai sono intimamente persuaso che vi è del falso non nella religione, ma nella vita religiosa così come si svolge sotto gli occhi dei pastori di anime»; e dopo aver saputo della decisione di molti vescovi di vietare l’uso della bicicletta ai preti suggerisce: «Piuttosto sappiano formare le coscienze in seminario». Se la prende col perbenismo e con i pettegolezzi del clero, ma soprattutto agisce. Non vuole che il sacerdote sia separato dal mondo e che viva seduto su un piedistallo.

Dopo i primi anni ad Argenta, scoppia la Prima guerra mondiale e don Lorenzo viene arruolato come cappellano. Inizialmente sembra subire il fascino dell’avventura militare come la maggior parte dei giovani dell’epoca, ma ben presto comprende come il conflitto non sia altro che «un’inutile strage», come lo definirà Benedetto XV. «Mi vedranno non un eroe – annota nel novembre 1916 – ma almeno un sacerdote, che senza aver gridato viva la guerra ha saputo accorrere là dove vi era una giovane vita da confortare, una lacrima da sublimare, una goccia di sangue da rendere martire, un’anima da rendere santa! E allora la mia missione di sacerdote sarà più efficace nella nuova vita che si aprirà dopo la guerra».

Inviato al fronte sull’altopiano di Asiago, vive in prima persona la brutalità della guerra di trincea. Nel maggio 1917 scrive: «Ancora distruzione, ancora stragi, ancora massacri, carneficine e poi nuovi anniversari di sangue e di dolore con sempre dinanzi il fantasma gigantesco di questo lento terribile suicidio di una civiltà atea, immorale, che si dilania da se stessa… A quando il grido evangelico: Domine, salva nos, perimus!». Più volte si legge in queste pagine: «Iddio non vuole la guerra». E insiste: «Ho veduto scene macabre: mucchi di cadaveri rattrappiti esprimenti le ultime convulsioni di una morte violenta; trasformati, mutilati orribilmente putrefatti». In mezzo a questo scenario di distruzione il sacerdote mette in campo la sua pietà e domanda: «Signore, cessate l’immane flagello».

Le pagine che Bosio dedica alla Grande Guerra sono le più emozionanti, prodromo al martirio che don Minzoni avrebbe subito pochi anni dopo, il 23 agosto 1923. Aveva avuto modo, alla fine del 1917, durante alcuni giorni di convalescenza trascorsi a Milano, di ascoltare un discorso di Mussolini alla Scala («Ha parlato con frasi convulse e dittatorie: ogni frase un applauso», afferma), intuendo la pericolosa capacità del futuro Duce di mobilitare le masse.

Terminato il conflitto e tornato ad Argenta, si impegna a tutti i livelli per una ricostruzione etica del tessuto sociale. Quegli anni vedono gli scioperi socialisti, poi le violenze fasciste. La sua priorità è «formare delle coscienze solide, ben temprate sul piano morale». Dà vita al circolo culturale Giosuè Borsi, rivolto agli adulti del paese, poi anche al cinema parrocchiale, e rivitalizza l’Azione cattolica. Infine, nell’aprile 1923, annuncia che ad Argenta nascerà un gruppo scout. Nel frattempo, in quelle zone in gran parte governate da amministrazioni socialiste, si scatenano raid fascisti, assalti alle sedi di partiti e sindacati, a volte uccisioni. Prese di mira sono anche le organizzazioni cattoliche.

La sua voce si leva con chiarezza: «Facciamo vivo appello perché le lotte non si trasformino con mostruoso cinismo, viltà e settarismo, in una guerra civile»; e ancora, in una lettera a un amico prete: «Quando un partito (il fascista) quando un governo, quando uomini in grande o in piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano un’idea, un programma, per me non vi è che una soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre».

Parole chiarissime che sfoceranno nella decisione di fondare un reparto dell’Asci, iniziativa che ha immediato successo e suscita il malumore dei fascisti. Tanto che, come detto, la sera del 23 agosto viene colpito a bastonate sul capo da due squadristi, mentre sta tornando in canonica con un amico. Muore poco prima della mezzanotte a causa delle botte subite. Vennero individuati colpevoli e mandanti, ma al processo furono assolti. Sul delitto cadde ben presto il silenzio: solo dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda guerra mondiale la vicenda verrà chiarita, anche se i due assassini amnistiati. Il suo martirio fu riconosciuto ed è in corso la causa di beatificazione.