Agorà

Anticipazione. Don Ciotti: i miei maestri di strada e di Vangelo

don Luigi Ciotti giovedì 2 aprile 2015
Arriva oggi nelle librerie francesi “Un prêtre contre la mafia” (Bayard, pagine 166, euro 18), che contiene il testo della lunga intervista rilasciata dal fondatore del Gruppo Abele, don Luigi Ciotti, a due giornalisti di “Avvenire”: Nello Scavo – già autore dei best seller “La lista di Bergoglio” (Emi) e “I sommersi e i salvati di Bergoglio”(Piemme) – e Daniele Zappalà. Presentiamo qui in anteprima per l’Italia un brano tratto dal libro.Più che di modelli, mi piace parlare di punti di riferimento. E i miei principali sono innanzitutto il Vangelo e poi la Costituzione. Tutta la mia vita è stata spesa nel cercare di saldare il Cielo e la Terra, la salvezza celeste con la dignità e la libertà terrene. Maestri ne ho avuti tanti. E non penso solo a grandi figure come padre Michele Pellegrino, il vescovo di Torino che mi ordinò sacerdote e mi permise di avere come parrocchia “la strada”. Penso anche ai tanti “poveri cristi” che sulla strada ho incontrato e che, mettendomi di fronte ai miei limiti, mi hanno reso una persona migliore. [...]Ogni incontro mi ha lasciato qualcosa, mi ha arricchito. Ma certo devo molto a una persona incontrata da ragazzo.. All’epoca, inizio degli anni Sessanta, frequentavo un corso di radiotecnica e ogni giorno, andando a scuola, vedevo un signore seduto su una panchina avvolto in due cappotti: aveva sempre un libro in mano e lo sottolineava con una matita metà rossa, metà blu. Una mattina, vincendo la timidezza, mi avvicinai e gli chiesi se avesse bisogno di qualche cosa: senza sollevare lo sguardo mi fece capire di no. La scena si ripeté un po’ di volte finché un giorno, forse incuriosito dalla mia timida testardaggine, mi fece cenno di sedermi e cominciò a raccontare. Era un medico chirurgo che aveva scelto la vita di strada dopo un incidente sul lavoro che gli aveva sconvolto la vita. Cominciammo a vederci ogni giorno, diventammo amici, e fu durante uno di questi incontri che mi indicò un gruppo di ragazzi davanti a un bar, giovani che all’epoca “sballavano” mischiando alcol e anfetamine: «Io sono stanco e malato – disse –. Ti ringrazio della tua amicizia, ma se vuoi fare qualcosa di utile occupati di loro».Qualche giorno dopo, passando dalla piazza, trovai la panchina vuota: il mio amico medico era morto. Avevo 17 anni. Il Gruppo Abele nascerà tre anni dopo, nel Natale del 1965, e la sua storia deve molto a quell’incontro. [...] Vocazione, molto più che scegliere, è essere scelti. Vocazione è “convocazione”: voce che chiama e che chiede una risposta, ed è dunque responsabilità. È possibile che io sia stato prete ancora prima di diventarlo nei fatti. Poi, ovviamente, c’è modo e modo d’interpretare e vivere l’essere preti, l’incontro con Dio e con gli altri, e lì contano i fattori caratteriali, conta il contesto, l’epoca, contano molto le persone che hai incontrato e ti hanno accompagnato su quella strada. Personalmente ho avuto la fortuna di poter contare su due grandi vescovi, Michele Pellegrino, che mi ha ordinato, e Anastasio Ballestrero. Così come su altri grandi figure di Chiesa: padre David Turoldo, don Tonino Bello, don Franco Peradotto. [...]La strada e il Vangelo sono indissolubili, sono un’unica realtà. Per questo non mi piace l’espressione “prete di strada” (come pure “prete antimafia” o “prete antidroga”). Nell’essere prete è insita la dimensione della strada, del cammino, dell’incontro, della ricerca. La strada pone in fondo sempre la stessa domanda: come fare – anzi, che cosa puoi fare – affinché tutte le persone siano accolte, abbiano una casa, un lavoro, una dignità, siano chiamate per nome, non siano un numero, una cosa, una merce? Questa è la domanda della strada. Ed è una domanda che ci trova spesso impreparati o peggio sordi, indifferenti, altrimenti la strada non sarebbe sempre così piena di disperazione, di smarrimento, di bisogni non raccolti.L’aspetto che più balza all’occhio, da quando ho iniziato la mia storia di sacerdote, è che allora la strada era segnata soprattutto dall’emarginazione, dalla fatica esistenziale, dalla malattia e dalle dipendenze, mentre oggi ci sono interi pezzi di società che non hanno più nemmeno i mezzi materiali per vivere dignitosamente. Interi pezzi di società sono stati letteralmente “sfrattati”, non hanno più casa e non hanno più cittadinanza. Non è un segno di progresso. Siamo progrediti nel campo delle tecnologie, della scienza. Ma in quello dell’etica, dell’accoglienza, dei diritti, della uguaglianza, c’è stato un regresso. Se leggiamo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo>, scritta nel dopoguerra, non possiamo guardarci attorno senza provare un senso di smarrimento e di vergogna.