Agorà

INEDITO. Don Camillo, ecco il copione fantasma

Roberto Beretta mercoledì 25 marzo 2009
Giovannino Guareschi stru­mento della «distensione» E­st- Ovest ai tempi del «disge­lo » tra Usa e Urss. Più o meno come le missioni diplomatiche a Helsinki, i trattati di «non proliferazione nu­cleare », il telefono rosso tra Krusciov e Kennedy... E chi fatichi a immaginare i baffoni del polemista emiliano impegnati a fendere i ghiacci della «guerra fred­da », forse non ha ben considerato il ruolo che le sue opere, massime i racconti di Mondo Piccolo e so­prattutto la loro riduzione filmica, potrebbero aver svolto nei delicati equilibri psicologici tra cattolici e marxisti, tra Dc e Pci, se non addi­rittura tra Nato e Patto di Varsavia... Ma adesso è un interessante docu­mento a rafforzare l’ipotesi, un te­sto ripescato dall’archivio dei figli a Roncole Verdi nel contesto delle i­niziative del centenario guare­schiano ed esposto nella grande e bella mostra sul Giovannino da grande schermo, allestita nei mesi scorsi alla Cineteca di Bologna. Si tratta del soggetto della prima pel­licola dedicata a Don Camillo, 5 pa­gine dattiloscritte firmate da padre Felix A. Morlion, un domenicano poliedrico (è stato tra l’altro il fon­datore a Roma dell’università pri­vata Pro Deo, l’attuale Luiss) che coltivava un interesse appassiona­to per il mondo del cinema e i suoi risvolti «cattolici». Siamo nell’ottobre 1950. Padre Mor­lion – sulla cui controversa figura si torna a parte – è reduce dalla con­sulenza religiosa per il film di Ro­berto Rossellini Francesco giullare di Dio, prodotto dal commendator Angelo Rizzoli, ed è dunque piutto­sto prevedibile che la casa cinema­tografica milanese gli richieda (pa­re attraverso il produttore Peppino Amato) anche un soggetto ispirato alla prima raccolta di racconti di Mondo Piccolo. Per la verità un co­pione è già stato steso, però non è piaciuto affatto a Guareschi, il qua­le nell’estate del 1950 ha scritto u­na lunga lettera a Rizzoli segnalan­done con forza i difetti; tra cui, so­prattutto, il mancato rispetto della tesi principale della sua opera: «Far risaltare la differenza sostanziale che esiste tra la 'massa comunista' e l’'apparato comunista'. Indurre cioè l’uomo della massa a ragiona­re col suo cervello e con la sua co­scienza ». Per lo scrittore si tratta di un ele­mento irrinunciabile: «Io non po­trei mai ammettere che il concetto informatore della serie dei miei rac­conti venisse comunque falsato... Io pertanto non darò mai la mia ap­provazione a un film che non ri­sponda ai precisi requisiti che ho cercato di esporre». E, a questo pun­to, per non andare incontro a noie legali ma anche e forse soprattutto per riguardo verso il suo prestigio­so autore, Rizzoli chiede appunto la consulenza di padre Morlion. In effetti, il frutto del lavoro del do­menicano (redatto «con l’ausilio di alcuni diretti collaboratori dell’Isti­tuto Internazionale Cinematografi­co della Pro Deo») rispecchia in pie- no le richieste. Le sue «Note per u­na eventuale elaborazione di un soggetto cinematografico tratto dal volume 'Don Camillo' di G. Gua­reschi » non sono affatto ciò che ma­gari si potrebbe temere da un sa­cerdote in epoca di «guerra fredda», cioè un tentativo pseudo-apologe­tico di fare propaganda filo-atlantica, bensì rive­lano – insieme a un o­rientamento «morale» e cattolico («Il film, benché popolare, deve offrire qualcosa più di un diver­timento ») – una posizio­ne piuttosto equidistan­te tra i due blocchi. Certo, il consulente do­menicano raccomanda di scegliere un regista «fornito di uno speciale dinamismo cristiano» ol­tre che di «senso della sa­tira affettuosa e benevo­la » (e suggerisce perciò A­lessandro Blasetti), tutta­via non pare che colga nel vero Ro­berto Chiesi – ricercatore dell’Ar­chivio Pier Paolo Pasolini di Bolo­gna e curatore di un contributo nel catalogo della recente mostra gua­reschiana – quando scrive che la no­ta di Morlion rappresenta «una del­le prime e delle più sofisticate azio­ni diplomatiche, da parte ecclesia­stica, per condizionare le scelte nar­rative relative al primo film della se­rie e imprimere una direzione pri­vilegiata alla storia». Anzitutto, in­fatti, non fu Morlion a intrometter­si, ma Rizzoli a coinvolgerlo. E poi il suo intervento non sembra affatto improntato al più bieco anticomu­nismo. Per il consulente la «tesi più profon­da » di Guareschi è invece quella che «i violenti impulsi di ribellione del­l’uomo semplice che abbraccia le i­dee di sinistra, nascondono il più delle volte una reale, sincera ansia di giustizia... L’uomo di sinistra ces­sa di essere tale per divenire sem­plicemente 'uomo', uomo di 'buo­na volontà'». Una tesi «di significa­to pienamente cristiano», certo; ma non per questo denigratoria nei confronti dell’avversario ideologi­co: al contrario. Di qui discende la caratterizzazione dei protagonisti, Don Camillo e Beppe (così il do­menicano chiama – chissà perché – Peppone), ai quali curiosamente padre Morlion accosta due perso­naggi di sua invenzione e che co­stituiscono la parte negativa delle rispettive ideologie: il politicante di sinistra Andrea e la beghina Petro­nilla. L’impostazione generale del reli­gioso è chiara e ambiziosa insieme: battere «i consueti films america­ni » affrontando con coraggio «un grave problema da Hollywood sem­pre evitato o falsificato: l’urto dei motivi popolari di destra e di sini­stra » e calcare il solco dei «passati successi del Cinema Italiano del do­poguerra », i quali «hanno determi­nato una giustificata aspettativa che occorre non lasciare insoddisfatta» (Morlion era un fanatico del neo­realismo). A tale scopo il domeni­cano imposta anche le «linee gene­rali del trattamento» per la futura pellicola, dalla panoramica iniziale su Brescello alla scena del comizio per l’inaugurazione della Casa del Popolo, seguita dalla famosa parti­ta di calcio tra «rossi» e «bianchi», dalla punizione di don Camillo da parte del vescovo fino alla celebre sequenza dello sciopero agrario con la mungitura clandestina escogita­ta dai due protagonisti per evitare la morte delle vacche. In sostanza si tratta degli episodi che poi finiranno effettivamente nel film del 1952; non viene invece accolta la proposta di inserire i due perso­naggi in più, che avrebbero dovuto rappresentare l’opposizione ideo­logica alle azioni dei protagonisti. Per la conclusione, però, mentre Duvivier sceglierà la scena dell’esi­lio – che pare fatta apposta per pre­parare un sequel, come di fatto poi avverrà – padre Morlion aveva pre­ferito un lieto fine: quello del ma­trimonio contrastato tra il figlio di comunisti Mariolino e la figlia di possidenti Gina. Allo scopo, il do­menicano aveva persino trovato la giustificazione morale adatta a su­perare il mancato consenso dei ge­nitori: l’epikeja, ovvero quel princi­pio di buon senso che permette di interpretare e persino superare in certi casi la norma canonica... E in questo caso il consulente aveva fat­to davvero il suo mestiere.