Agorà

DIALOGHI. Domande sul Vangelo

mercoledì 3 luglio 2013
Quali sono il significato e il destino del cristianesimo nel clima culturale e spirituale dei nostri tempi? Nel volume «Interrogazioni sul cristianesimo. Cosa possiamo ancora attenderci dal Vangelo?» il filosofo GIanni Vattimo e il teologo Pierangelo Sequeri, interpellati dal giornalista Giovanni Ruggeri si confrontano con il contraddittorio atteggiamento del nostro tempo verso la religione e, in particolare, con il ruolo del messaggio cristiano e della Chiesa nella società postmoderna. Ne emerge un ampio affresco di temi e prospettive attraverso cui ripensare il significato e la possibilità della fede cristiana, senza avvilirla nella ripetizione catechistica o snaturarla in un moralismo riduttivo. Dal volume, in uscita il 5 luglio da Castelvecchi (pagine 140, euro 18,50), anticipiamo alcuni brani riguardanti la figura di Gesù.GIANNI VATTIMO: «QUELLE SUE PAROLE SONO DI ORIGINE DIVINA»Io ritengo che Gesù venga da Dio perché le cose che dice sono davvero di origine divina, cioè sono davvero il meglio, il più divino che ho trovato nella mia storia. Quello che mi impressiona è la perfezione del suo messaggio, prima e più che i suoi miracoli. Non mi faccio impressionare, ad esempio, dalla risurrezione di Lazzaro, perché tutto dipenderebbe dalla fede che presto agli scritti che me ne parlano: infatti, chi mi parla della risurrezione di Lazzaro? È difficile pensare all’esistenza di altri documenti antichi, oltre ai Vangeli, in cui si parli di uno che ha risuscitato un tale di nome Lazzaro…Credo che Schleiermacher non si esprimesse in termini molto diversi (anche se più attenuati dei miei) quando scriveva che Gesù Cristo è l’uomo che ha realizzato il più possibile la vicinanza e il senso di dipendenza da Dio: Gesù sarebbe l’esempio più grande, sotto questo profilo, e noi ci salveremmo in quanto in contatto storico-sacramentale con lui (mediante i Vangeli, il culto) come massimo eroe della coscienza religiosa dell’umanità. Io non seguirei per intero il percorso di Schleiermacher, ma nemmeno mi interessa granché stabilire se Gesù sia di natura divina o di natura umana, se in lui vi siano due nature e una persona, o tutte le altre questioni in cui si avviluppa la teologia di oggi. (...)Io credo nella divinità di Gesù Cristo soprattutto per ciò che lui mi ha detto; anzi, posso persino ammettere che egli sia resuscitato sulla base del fatto che tutte le altre cose che mi dice sono così attraenti che non posso non credergli. Insomma, è come se, avendolo visto, mi sia innamorato di lui e sia quindi divenuto capace di dargli ascolto. Del resto è proprio san Paolo ad affermare che la fede è sempre <+corsivo>fides ex auditu<+tondo>. Non è quindi inverosimile pensare alla propria fede come all’essere presi da un messaggio affascinante – per dirla con un aggettivo certamente inadeguato - insomma capace di prenderti. (...)Se qualcuno mi chiedesse perché preferisco Gesù Cristo a Buddha, risponderei: «Perché sono stato educato nel cristianesimo». E se mi si obiettasse che questo è un limite, risponderei che non posso certo cavarmi gli occhi per vedere meglio. Io ho una tradizione e vivo al suo interno: anzi, per proseguire con l’esempio della preferenza a Cristo anziché a Buddha, direi che il buddhismo ancora non l’ho giudicato perché non è una religione positivamente dogmatica, e che piuttosto solo nel cristianesimo trovo le ragioni per interessarmi anche al buddhismo e ad altre tradizioni. Sono quindi convinto, in primo luogo, che la mia fedeltà al Vangelo è anche (o soprattutto, chi lo sa?) fedeltà a una tradizione umanisticoculturale-politica che è la tradizione europea; non riesco a separare nettamente queste due realtà, quasi esistesse un cristianesimo esterno all’Occidente e ad esso invece non profondamente avviluppato. Sono poi convinto che la verità dell’Occidente è il cristianesimo, e, viceversa, che la verità del cristianesimo è oggi l’Occidente (non necessariamente in senso per così dire eterno, ma considerando che il «cristianesimo » è anche la «cristianità», al cui interno peraltro il fermento cristiano opera criticamente, rimettendo in discussione assetti stabiliti, invitando all’ascolto di altre tradizioni religiose, ecc.).In definitiva io non ho scelto di stare nella tradizione cristiana: vi sono dentro, prendendo atto dell’esistenza di una quantità di cose che ho pensato come separate da questa tradizione mentre in realtà ad essa mi riconducono. Di ciò prendo atto anche criticamente, ovvero senza alcun esclusivismo o integralismo, quasi che ora si dovesse smettere di leggere tutti gli autori contemporanei e fermarsi solo al Vangelo o a certi contenuti dell’insegnamento della Chiesa. Piuttosto, io rimango nella tradizione cristiana perché ritengo che anche Voltaire si trovava al suo interno, e, con lui, tutta la democrazia moderna. Semmai contrappongo talvolta un brano di questa tradizione –che a me sembra dotato di qualche autenticità – ad altri che magari trovo più autoritari, dogmatici; in ogni caso, è sempre all’interno di questa tradizione che mi muovo. Per me essere cristiano è come accettare la mia finitezza, peraltro descritta dalla Sacra Scrittura. PIERANGELO SEQUERI: «INTUIZIONE CHE SUPERA I PREGIUDIZI POSITIVISTICI»Ai miei studenti di solito dico: per conoscere la tradizione su Gesù, non occorre interrogare tutta la storia del mondo o fare innumerevoli comparazioni (come invece oggi accade, perché il cristianesimo è stato diffuso e fatto conoscere a tutti, con l’inevitabile infittirsi della selva delle interpretazioni). In realtà, non abbiamo molto di più dei Vangeli. Questo fatto mi induce a proporre due considerazioni. In primo luogo, ciò che nei Vangeli impressiona – deponendo a favore della serietà della loro testimonianza – è che i garanti della loro attendibilità sono d’altra parte costretti a figurare, negli stessi racconti evangelici, come protagonisti del quotidiano fraintendimento di colui di cui erano discepoli, cioè di Gesù. Questi testi, concepiti certamente con un’intenzione kerigmatica, quindi anche apologetica e propagandistica (nel senso più alto della parola), contengono autorevolmente non solo la testimonianza su Gesù, ma anche la cronaca del quotidiano fraintendimento di coloro che ne garantivano l’attendibilità.Questo fatto – verrebbe da dire con una battuta – è quasi una prova dell’esistenza dello Spirito Santo! Proviamo infatti a calarci nella situazione: quando si leggevano i testi evangelici, di fronte al nome di Pietro, Giovanni o Giacomo, per fare degli esempi, si levava il capo e si stava in religioso silenzio. Ora, però, in quei testi c’è scritto anche (senza peraltro che ci fosse bisogno di scrivere una tale storia, perché il cristianesimo aveva già una dogmatica, una liturgia, una misterica) che Pietro non ha capito Gesù, Giuda l’ha tradito, quell’altro l’ha abbandonato, l’altro ancora voleva fare la propaganda secondo il proprio modo di vedere… Ebbene, per esprimere una tale sconcertante verità bisogna avere un coraggio straordinario, che si può pensare solo dello Spirito Santo, perché io non ho ancora mai visto nessun ciclostilato parrocchiale e nemmeno una enciclica papale così critici nei confronti della propria parte! E tuttavia credo che questa peculiarità delle Scritture sia del tutto pertinente, perché soltanto le Scritture sono ispirate, nel senso inteso anche dal dogma cattolico quando afferma che in esse è presente una qualità differenziale della confessione della fede (che è insieme apologetica e autocritica, quando viene dallo Spirito) che non si è mai più riprodotta a quell’altezza. Questo fatto mi impressiona molto e trovo che solleciti un confronto serio con questa testimonianza.In secondo luogo, si impone all’attenzione l’atteggiamento che Gesù ha rispetto al punto cruciale e delicato di Dio e del rapporto dell’uomo con Dio. Io vedo Gesù come folgorato da un’intuizione, da una percezione, si potrebbe dire anche da una fede (non ho paura di questo termine, giacché la stessa Lettera agli Ebrei parla della fede di Gesù, intesa non in senso intellettualistico ma dal punto di vista del legame) nei confronti di Dio, del Padre, che potrebbe lasciarsi esprimere in questi termini: «Voglio che vi affidiate totalmente a Lui, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, come dice la vecchia Legge, a costo di essere io in secondo piano, e sapendo anche che ci sono cose che non debbono essermi chieste perché solo il Padre le conosce».Il rigore di questa mediazione risplende anche nel fatto che in Gesù vedo un<+corsivo> unicum<+tondo>, uno cioè che non parla semplicemente di Dio in terza persona, come un profeta. Questo è clamoroso, perché rispetto all’antica Legge di Dio nessuno si sarebbe permesso di dire: «Ma io vi dico…», come invece Gesù fa (cfr. Mt 5, 21 ss.), men che meno un uomo religioso, il quale sa che non ci si può accreditare così. Questo modo di fare di Gesù avrebbe suscitato dubbi anche in me, come del resto in tutti, per la sua enormità. E invece ne viene una fede che corrisponde alla sua, la quale osa un tal modo di esprimersi, manifestando al tempo stesso anche la chiara consapevolezza della differenza fra lui e Dio (in quanto egli ne è la rivelazione), come quando ad esempio Gesù dice che neanche il Figlio dell’uomo sa quando verrà la fine del mondo, o che stare alla sua destra o alla sua sinistra lo decide non lui ma il Padre.A mio parere è qui il nocciolo della questione. In una cultura come la nostra, piena ancora di vieti pregiudizi positivistici, Vattimo si apre e dice: i racconti evangelici mi dicono che qui è accaduto qualcosa di enorme per il nostro destino ed io mi trovo all’interno di questo annuncio, non ho motivo per non esservi. A mia volta, io faccio un’operazione simmetrica: anziché esprimermi – come sarebbe fin troppo facile fare – sul fondamento della resurrezione, della missione trinitaria del Figlio, ecc., vorrei dire: quando di notte mi interrogo sulle cose sulle quali è giusto che ciascuno si interroghi per essere onesto nel renderne ragione, ciò che mi tiene rispetto al cristianesimo è questo: mi sentirei un vigliacco se non continuassi ad avere la stessa fede di Gesù.