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Il caso. Diritti d'autore, si cambia musica

Angela Calvini martedì 3 maggio 2016
Il Global Music Report 2016 di Ifpi (la sigla che riunisce tutte le case discografiche mondiali) registra una crescita del 10,2% dei ricavi digitali (6,7 miliardi di euro), con un aumento dello streaming del 45,2%. I ricavi totali del settore musicale sono aumentati del 3,2% fino a raggiungere 15 miliardi di euro. I ricavi digitali rappresentano attualmente il 45% dei ricavi totali, mentre il fisico ne rappresenta il 39% e i concerti il 14%. Sostenuto anche dalla diffusione degli smartphone, lo streaming resta la fonte di ricavi che cresce più velocemente: + 45.2% fino a raggiungere i 2,9 miliardi di euro. Per l’Italia il 2015 il mercato discografico è cresciuto del 21% secondo i dati raccolti da Deloitte per Fimi, con un fatturato di 148 milioni di Euro. Anche da noi il segmento digitale risulta sempre più importante rappresentando oggi il 41% del mercato guidata dallo streaming, con servizi come TIMmusic, Spotify, Apple Music, Google Play e Deezer.Il caso Fedez ha scoperchiato il pentolone ribollente di insoddisfazione degli artisti italiani sulla questione dei diritti d’autore. Un problema che tocca soprattutto i giovani e i piccoli autori di musica, penalizzati ancor più delle grandi popstar dal solido catalogo, dall’avvento del digitale che ha sparigliato le carte del mercato discografico.Ricapitolando, il rapper e autore ha mollato la Siae, la Società italiana autori editori che ha il monopolio in Italia della raccolta e distribuzione delle “royalties” dei musicisti, aderendo a un nuovo soggetto, Soundreef, società italiana basata in Gran Bretagna, ma che può operare a livello europeo secondo le nuove norme comunitarie. Ma la questione è globale.Sono lontani i tempi in cui le vendite di dischi erano l’unica via e davano un reddito, grande o piccolo che fosse, certificabile e certo agli autori. Il 2015 è stato l’anno di svolta del mercato musicale globale con il comparto digitale che diventa la prima fonte di ricavi per la discografia (45%), superando per la prima volta i ricavi derivati dalla vendita dei formati fisici (39%). Secondo il Global Music Report 2016 di Ifpi i ricavi totali del settore sono aumentati del 3,2% fino a raggiungere 15 miliardi di euro. Tuttavia, c’è un punto di debolezza alla base di questo recupero: questa esplosione di consumi online non determina una proporzionata remunerazione per gli artisti. Questo a causa di una distorsione del mercato creata dal “disvalore remunerativo” che sta privando gli artisti del giusto compenso per il proprio lavoro. Per questo motivo negli Stati Uniti è nata Content Creator Coalition, una coalizione per la difesa dei propri diritti d’autore, capitanata da artisti come Taylor Swift, Tom Waits, Billy Joel. Si lamentano anche le etichette, come spiega Enzo Mazza della Fimi: «Si va sempre di più verso un mercato delle royalties su varie forme, streaming, concerti, pubblicità, merchandising, proventi dai diritti connessi a radio e palestre – spiega –. Alcuni colossi delle nuove tecnologie come YouTube hanno ricavi enormi da utilizzo di musica attraverso milioni di streaming ogni giorno, ma che non vengono distribuiti lungo la filiera. Le disparità devono essere sanate». In pratica, spiega la Fimi, alcuni principali servizi digitali sono in grado di aggirare le normali regole che si applicano alle licenze musicali. Le piattaforme che offrono servizi di caricamento da parte degli utenti come YouTube affermano di non dover negoziare alcuna licenza, richiamando la regole sull’“assenza di responsabilità” che vennero introdotte alle origini della rete internet in Europa e Stati Uniti.E in Italia? Nel 2015 il mercato discografico è cresciuto del 21% secondo i dati raccolti da Deloitte per Fimi, con un fatturato di 148 milioni di euro, di cui il segmento digitale rappresenta oggi il 41%. Già, ma quanto arriva in tasca agli artisti italiani da internet? Sino ad ora briciole. E il web sfugge, come si nota dalle proporzioni. Secondo le voci di incasso 2014 del settore musica della Siae, i diritti d’autore ricavati dal multimediale sono stati 10,91 milioni di euro (+ 17%) contro i 17,12 dai dischi. Il denaro agli autori italiani arriva soprattutto da locali da ballo (116,8 milioni), concerti (104,94 milioni di euro), radio e tv (129,21).Nel frattempo il mercato della gestione dei diritti d’autore in Europa è diventato libero, da quando il Parlamento Europeo ha approvato due anni fa la direttiva 26/2014 (Direttiva Barnier), che permette di ottenere le licenze d’uso per la musica in più Paesi europei. Ma, mentre in molti paesi ci sono già più società a farsi concorrenza, in Italia vige ancora il monopolio della Siae, e il recepimento della direttiva è ancora all’inizio dell’esame parlamentare. Pochi giorni fa trecento fra imprenditori e investitori hanno firmato una lettera, consegnata al presidente del Consiglio Matteo Renzi, per far cessare il monopolio della Siae: «Con l’apertura del mercato si ridurranno drasticamente i tempi di rendicontazione e pagamento dei compensi per gli autori, dall’attuale media di 12/24 mesi a quella di una o più settimane – scrivono –. Le somme dovute saranno determinate in modo preciso e puntuale grazie a sistemi digitali, superando il sistema forfettario ora utilizzato dalla Siae [che distribuisce i compensi in proporzione al numero dei brani composti dal cantante, ndr, che avvantaggia solo i grandi artisti». «La nascita di nuove imprese, come la nostra, che operano in concorrenza creeranno nuove opportunità di lavoro, favorendo anche la crescita del settore artistico» spiega Davide D’Atri, fondatore e amministratore delegato di Soundreef, che in Italia conta un migliaio di artisti affiliati, ma ventimila in tutto il mondo. «Quello dei diritti d’autore è un mercato molto grande – aggiunge –. In Europa vale 5 miliardi, dal 2003 è cresciuto del 23%. In Italia il business dei diritti vale 600 milioni, e tutto questo mentre il mercato discografico si restringeva. Noi abbiamo un sistema per ascoltare centinaia di canali radio e tv: quando il sistema riconosce i brani nostri, li segnala». Già, ma resta anche per loro il problema di incassare dal web. «Gli ex monopolisti sono stati lenti a trattare coi giganti della Rete, ma hanno ragione a dire che c’è resistenza da parte di alcuni soggetti sul web a pagare» ammette D’Atri. La replica della Siae, presieduta da Filippo Sugar, è che la società si sta ammodernando per stare al passo coi tempi «digitalizzando l’offerta, pubblicando online bilancio e relazione di trasparenza, azzerando la quota d’iscrizione per giovani e start up editoriali e abbassando la nostra provvigione, che oggi in media è sotto al 16%». La Siae, a partecipazione statale, ha dalla sua il fatto di essere un ente non a scopo di lucro, una solidità dovuta a un fortissimo catalogo, ben ottantamila iscritti e una struttura capillare. A difenderla sono scesi in campo gli autori, editori, artisti, interpreti ed etichette indipendenti d’Italia rappresentati da Afi, Aia, Anem, AudioCoop e Pmi che hanno scritto a Renzi «contro la liberalizzazione selvaggia del diritto d’autore». Come spiega Mario Limongelli, presidente Pmi (Produttori Musicali Indipendenti) «la Siae è il nostro ultimo baluardo, altrimenti il nostro settore finirebbe in ginocchio. Noi siamo la periferia del business». Ma non sarebbe meglio che anche i cosiddetti “collector” facessero fronte comune nei confronti dei colossi digitali? Per Oreste Pollicino, docente di Diritto dei media all’Università Bocconi di Milano «ci sono due diritti in contrasto: il diritto di libera iniziativa economica e il diritto d’autore. I gestori delle piattaforme web si fanno scudo con il diritto alla libertà di espressione, ma spesso si tratta di attività illecita. Anche la libertà di espressione ha dei limiti, il problema è la proporzionalità dell’intervento per tutelare la creatività».