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Arte contemporanea. Difesa dell'identità? La verità è che siamo tutti post-migranti

Alessandro Beltrami venerdì 14 luglio 2023

Bani Abidi, "The Song", 2022, video, 22’, filmstill

Il termine tedesco Vielheit può essere tradotto con “molteplicità”, “pluralità” (anche se di norma vengono preferiti Vielfalt e Vielzahl), e si oppone a Einheit, che esprime una unità fortemente coerente. Monolitica. “Vielheit” è il titolo della mostra estiva (e impegnatissima) di Kunst Meran Merano Arte: curata da Jörn Schafaff, storico dell’arte tedesco di stanza a Berlino, raccoglie e racconta “Storie dalla società post-migrante”.

Raramente si assiste a una mostra così stimolante. L’assunto è che, mentre siamo abituati a pensare la migrazione come un’emergenza o persino una novità, complici le narrazioni mediatiche e il discorso politico, la realtà sociale è caratterizzata dalla convivenza quotidiana di persone di origini e background culturali, sociali, etnici e religiosi differenti. Una società molteplice e, appunto, “post-migrante”.

Il percorso espositivo è convincente. Bouquet IX (2012) dell’artista olandese Willem de Rooij è un vaso di fiori i cui boccioli sono tutti di colore bianco, ma la loro forma è molto diversa e la maggior parte delle piante non è originaria dell’Europa. Il tailandese Rirkrit Tiravanija in untitled 2023 (neighbours), opera realizzata ad hoc per la mostra, propone su più schermi persone di origini diverse che raccontano il loro arrivo a Merano, la loro vita attuale e i loro desideri, con un plurilinguismo che rivela quanto sia sclerotizzata e obsoleta la rigida scansione per gruppi linguistici che connota giuridicamente l’autonomia sudtirolese. Hidden islam (2014) di Nicolò Degiorgis è una riuscita ricognizione sui luoghi di preghiera delle comunità musulmane nell’Italia settentrionale, collocate dentro case, negozi, capannoni, garage privi di connotazione esterna, una prova che quando la trasformazione arriva all’occhio significa che è già compiuta.

Ecaterina Stefanescu, Rooms (collage, religious icon), 2022. Tecnica mista. - Courtesy of the artist

La migrazione è in gran parte una questione domestica. La casa è lo spazio del compromesso e il confine permanente. Ed è spazio di ri-radicamento, e spazio da ri-colonizzare, perché la colonizzazione è il tentativo di rendere familiare un luogo estraneo, come accade nel commovente video di Bani Abidi The Song (2022), in cui un anziano uomo siriano giunto profugo in Germania resta travolto dal silenzio e cerca di ricostruire il rumoroso habitat sonoro della sua città, solo modo per chiamare le nuove stanze “casa”. O ancora le Rooms (2022) di Ecaterina Stefanescu, modellini e collage che replicano abitazioni e luoghi della comunità romena di Berlino. Ogni luogo è copia di un prototipo che nel frattempo si allontana e quindi a sua volta si prototipizza diventando identità.

E poi le case e le cose cambiano. In Inventur Metzstraße 11 (1975) Želimir Žilnik documentava la dura realtà dei Gastarbeiter, i lavoratori immigrati, provenienti da Grecia, Turchia e Italia, chiamati a raccontarsi sulle scale di un condominio di Monaco. Quasi mezzo secolo dopo Pinar Örenc ne realizza un remake, Inventur 2021. Il condominio “monolitico” di Žilnik è divenuto molteplice. Nel palazzo di Chemnitz, in Sassonia, dove le persone vengono – dicono – perché “c’è spazio”, la composizione etnica è la più varia e le tensioni hanno lasciato posto a una nuova normalità.

La mostra non ci dice dove andremo né ci restituisce solo una fotografia generalista di una società in trasformazione. Rivela un dato invece che una volta avvertito appare evidente: ossia la “natura” stessa dell’Italia. E non per via degli attuali flussi migratori, ma perché se l’Italia non è (più) una espressione geografica è dovuto al fatto che siamo una nazione determinata dalla migrazione: prima di tutto interna, che ha rimescolato storie e culture di base tra loro remote. Se oggi esiste l’Italia è perché le singole identità si sono ibridate tra zoccoli di resistenza, substrati, nuove sedimentazioni. L’Italia è una nazione post-migrante. La fame di lavoro e le vacanze di massa, la pizza e il tiramisù hanno potuto più che la scuola e le leggi.

Che cosa difendiamo allora quando alziamo barricate in nome dell’italianità? Un’Italia ferma a questioni identitarie è destinata a essere travolta dalla realtà. Il destino è analogo alla storia e ha la forma di nuove sedimentazioni, destinate a ridefinire ciò che è l’identità italiana. Anzi, l’hanno già ridefinita. Siamo convinti in buona fede che la scuola sia la strada dell’integrazione, chi nasce straniero diventa italiano acquisendo storia, tradizioni, cultura, Dante, Michelangelo, Garibaldi, la Vespa, Italia-Germania 4-3. Ma questa è assimilazione, non integrazione. Loro come noi. La scuola, attualmente il contesto più molteplice della nostra società, è invece qualcosa di molto diverso, è il crogiolo dove l’italianità, qualsiasi cosa essa sia, si trasforma. Perché l’integrazione viaggia a due direzioni, che noi lo vogliamo o no. La domanda vera allora è: come, anche retrospettivamente, queste nuove presenze, questi nuovi italiani ci costringono a rileggere e ri-costruire, allargandolo, il percorso che ci ha condotti fino a qui, oggi? Dobbiamo arrenderci al fatto che l’identità è un processo continuo, non una eredità o un dato di fatto. Su questo il Sud Tirolo ha molto da riflettere, e non a caso le mostre più stimolanti su questi temi non hanno luogo a Milano o a Roma ma a Merano. L’identità è una continua rinegoziazione di storie che pensiamo interrotte e che invece sono percorsi non lineari.

Clément Cogitore, Les Indes galantes, 2017, video, 5’26” - Courtesy of the artist, Chantal Crousel Consulting, Paris (FR) and Reinhard Hauff Gallery, Stuttgart (DE)

Tutto si condensa ed esplode nel video Les Indes galantes (2017) di Clément Cogitore, in cui un gruppo di ballerini di strada, per lo più di colore, provenienti dalle banlieu francesi danzano sulle note di Les Sauvages, dal quarto atto dell’opera di Jean-Philippe Rameau. L’interpretazione immediata, che è anche quella programmatica, è di assistere a una contestazione della rappresentazione esotica dei “selvaggi”. Eppure la forza di ciò che accade sul palco va oltre, si fa meno netta e molto più sconvolgente. Nonostante le distanze si finisce per assistere a una perfetta fusione tra street dance e groove barocco. Questi ragazzi, che dovrebbero distruggere i cliché della rappresentazione, sembrano accompagnare il crescendo dell’ostinato di Rameau, finendo per rispecchiarsi e persino liberarsi nella sua potenza estetica. Le loro movenze, in cui l’elemento che potremmo definire tribale (per quanto metropolitano) resta forte, sembrano riconoscersi in quanto accade a livello acustico e questo porta alla luce due elementi, potenzialmente veri entrambi: da una parte una costante antropologica insita nella reazione fisiologica al ritmo (come accade nei bambini) e dall’altra la qualità della comprensione di quanto Rameau vide nel 1725 assistendo nella Comédie italienne alla danza di due irochesi della “Louisiana” e che cercò poi di tradurre nella lingua della Parigi del Settecento. Quello che oggi viene bollato come sguardo coloniale è invece forse un tentativo di comprensione dello sconosciuto attraverso gli schemi antropologici ed ermeneutici allora a disposizione. Ogni tentativo di traduzione è tradimento e balbettamento. Ma se balbettiamo l’altro è perché la lallazione è la radice comune a tutti i linguaggi.

Les Indes galantes e Vielheit tutta sembrano dunque suggerirci che per quanto irrigidiamo gli schemi e imponiamo alla realtà l’immagine di ciò che pensiamo o vorremmo che fosse (senza averne la prova), alla fine la vita trova sempre la sua strada.

Ivo Corrà / Ecaterina Stefanescu