Agorà

OMAGGIO ALL'ATTORE. Dieci anni senza Sordi coscienza d’Italia

Fulvio Fulvi lunedì 25 febbraio 2013
​Romano. Anzi, italiano. Perché nei suoi film è stato la maschera di «quello che siamo e che forse avremo preferito non essere», come ha sottolineato Goffredo Fofi in un’insuperata biografia dell’attore. Comico, ma non sempre. Capace di mostrare pregi e (più spesso) difetti del popolo di cui ha fatto parte. Quel popolo che ancora lo porta nel cuore come è accaduto a pochi altri nel mondo dello spettacolo.Proprio oggi ricorrono i dieci anni dalla scomparsa di Alberto Sordi. Di lui ci restano i 155 film girati in più di 60 anni di carriera. E, soprattutto, ci rimane la simpatica immagine lasciata nelle pellicole e nelle apparizioni televisive: il volto rotondo e sempre sorridente, la camminata saltellante a braccia tese per darsi l’aria del disinvolto (perfezionata nelle ammiccanti passerelle dell’avanspettacolo), quell’ostentare in scena l’arrabbiatura con gli occhi sbarrati e alzando l’indice della destra ridicolmente piegato verso l’esterno, come... una pistola spuntata. Caricatura sì, Sordi, ma di quelle graffianti e che fanno pensare. Perché sul set "Albertone" è stato molto di più che una «simpatica canaglia». Cialtrone, strafottente e qualunquista quanto si vuole ma, alla fine, sempre amabile e, a suo modo, vincente. È come se ci avesse voluto dire, ogni volta, coi suoi "ritratti di un italiano", che questi nostri difetti possono diventare una forza anche se si finisce sconfitti. E che si può stare sempre sul filo del riso e della commozione come sul debole crinale che divide il bene dal male: dal giovanotto sbruffone Nando Mericoni di Un giorno in pretura e Un americano a Roma (i film che gli fecero spiccare il volo) al pensionato di Un borghese piccolo piccolo che trova nella vendetta l’unica risposta alla violenza e al potere che gli hanno rovinato la vita. Ricordate, poi, il vigliacco Sordi e lo spavaldo Gassmann ne La grande guerra di Moncelli? In fuga da una missione pericolosa, i due vanno incontro alla morte per non tradire la patria (e loro stessi), diventando così degli "strani", indimenticabili eroi. E, allo stesso modo, la debolezza si può trasformare in coraggio, come in Tutti a casa di Comencini dove il sottotenente Sordi trova riscatto dalla codardia vedendo un suo compagno d’armi morire sotto i colpi del vero nemico. Nato a Roma nel 1920, Alberto Sordi ha cominciato come comparsa e doppiatore (dando la voce, tra gli altri ad Oliver Hardy) senza trascurare i palcoscenici della rivista e la radio dove inventò la macchietta del «compagnuccio della parrocchietta». Poi le prime esaltanti esperienze davanti alla macchina da presa, con Fellini ne Lo sceicco bianco e in seguito nel memorabile I vitelloni. Ma è difficile pescare nella sterminata filmografia, dove abbondano, soprattutto a fine carriera, prodotti non sempre all’altezza del suo valore di attore-autore (fu anche regista e sceneggiatore). Ha lavorato tanto, senza risparmiarsi. Chi lo ha conosciuto da vicino sostiene che, aldilà delle dicerie, fosse un tipo assai generoso.Tra le tante iniziative per ricordarlo, la mostra al Vittoriano di Roma (aperta fino al 31 marzo) che racconta la vita e i successi del grande attore. Oggi, su Rai Movie, una giornata con nove film "firmati" da Sordi: da Mi permette babbo, del 1956, a In nome del popolo sovrano, del 1990.