Agorà

FACCIA A FACCIA. De Luca: il mio Mosè spostò la montagna

Alessandro Bottelli mercoledì 16 febbraio 2011
Adesso l’uomo getta lo sguardo altrove. Alleggeri­to, sembra misurare la di­stanza tra sé e l’orizzonte. Si gira. Inumidisce le labbra, forse troppo a lungo dimenticate dalla liturgica negligenza del bicchiere mezzo vuoto. Negli occhi – tranquilli camposanti dell’esperienza – gli passa di tanto in tanto un refolo fresco e spazioso, portato fin lì da qualche cima solo intravista e mai ve­ra- mente posseduta. Ha dimesti­chezza di scalatore, intimità con le salite che raschiano via il fiato. Va solitario, dove la voce lo conduce, aprendosi un passaggio per vie a­spre, impervie, non ancora battute né battezzate dal pianto o dal su­dore. Spesso modula la propria immaginazione a ridosso di pareti appartate, puri strapiombi in cui anche l’abilità della mente si fa più friabile. E a tratti, persino sdrucciolevole. Una nuvola sopra le nostre teste ingentilisce il cielo, senza troppi proclami. Tra me e Erri De Luca, quasi a stabilire lo stacco di un attraversamento, si specchiano le ultime bozze di E disse , in uscita da Feltrinelli la prossima settimana (pagine 96, euro 10,00). Appaiono visibilmen­te taciturne. Toniche. Tenaci. Pun­tato sulle pagine già da giorni di­venute familiari, il mio indice sen­timentale anticipa, in silenzio, la domanda d’inizio. Che tipo di uomo è il 'tuo' Mosè? «È un salvato. L’unico che si sottrae allo sterminio delle nascite dei bambi­ni ebrei ordinato dal Fa­raone, preoccupato dall’incremento demo­grafico della minoranza ebraica residente in Egit­to. Mosè è l’unico scam­pato. E quindi in lui si condensa l’energia dei suoi coetanei, di tutte quel­le vite negate. È un ammi­nistratore delegato delle loro forze, che non hanno avuto modo di manifestar­si. Ha dunque questa energia in e­subero, talmente sovrabbondante da fargli inciampare la lingua. In­fatti è balbuziente. E non per ridu­zione, ma per eccesso: balbetta per sovraccarico di forza che quel­la lingua deve esprimere. Lui è ne­cessariamente l’unica scelta della divinità. Non ce n’è un’altra».Di quale carisma era dota­to Mosè, tanto da poter spostare un intero popolo radicato in Egitto da ven­tuno generazioni?«Mosè era portatore della energia necessaria a libera­re e a uscire. Egli era capa­ce di reggere, con le sue pa­role, il compito che la divi­nità gli aveva affidato. Pa­role dotate di una forza di sradicamento, prima che di radicamento, tali da riusci­re a smuovere un’intera po­polazione – numerosa, or­mai, perché dall’Egitto si spostano più di un milione e mezzo di vite – da quella lunghissima residenza. Quegli individui sono a tut­ti gli effetti dei cittadini egi­ziani, anche se apparte­nenti a una minoranza. E la notizia che li convince è proprio la promessa di una 'terra che ha mestruo di latte e miele'. Di questo si tratta, non di una terra che stilla, gocciola o traspira latte e miele, ma che ha il verbo delle mestruazioni femminili. Una notizia spuntata in bocca alla divi­nità, e quindi, sulle labbra di Mosè. Quel verbo rac­conta che la terra futura a­vrà la stessa fertilità della donna ebrea. Fertilità leggendaria, prorom­pente, tale da spaven­tare addirittura il Faraone. Entrato in Egitto in settanta unità maschili, il popolo di Israele riparte immensa­mente moltiplicato. Allora la divinità adopera la forza di generare della donna e­brea per raccontare la ter­ra promessa. Latte e mie­le non sono poi sempli­cemente gli ingredienti della prima colazione, ma una formula per dire che il luogo sarà adatto sia all’agri­coltura sia alla pa­storizia. Il latte simboleggia la terra, dove viene allevato il bestia­me, e il miele, invece, l’impollina­zione delle piante, la possibilità di coltivare alberi da frutto e svilup­pare l’agricoltura. È una regione che quindi tiene insieme i mestieri di Abele e di Caino, in cui entram­bi potranno trovare convivenza».Mosè è uno abituato alle salite in solitudine: «Andava per desiderio di staccarsi dal campo, dalle voci, saliva per allontanamento». Che cosa va cercando un uomo lonta­no dagli altri?«Va cercando una distanza. E se la procura. I pastori, in genere, sono dei solitari per mestiere. Magari, anche per vocazione. Davide, ad esempio, è un pastore per voca­zione. Gli piace, quella solitudine. In mezzo ai silenzi ha sviluppato le sue doti: una mira infallibile e l’invenzione musicale. È lui, infat­ti, il primo cantautore della storia sacra, colui che scrive e canta la gran parte dei salmi. Li inventa, per tenersi compagnia dentro la solitudine dei pascoli lontani. Allo stesso modo, possiamo definire Mosè il primo alpinista della sto­ria. Uno abituato a salire sui mon­ti. Sul Sinai/Hòrev – che vuol dire anche 'siccità', perché un nome solo non basta per una località co­sì importante – sale tre volte. La prima, addirittura scalzo, quando la divinità gli chiede di scavarsi i sandali su quel suolo. E le altre due per la doppia serie di tavole della legge. Poi ac­compagna suo fratello a morire sul monte Cor. E lui stesso muore da alpinista sul monte Nebo, oltre il Giordano. È là sopra che la divinità gli fa vedere la ter­ra nella quale non entrerà. Proprio per la sua biogra­fia, possiamo dunque af­fermare che Mosè ci sa sta­re in montagna. E ci sa an­dare anche da solo».«Non desiderare la roba d’altri». In passato, sei mai stato punto dall’invidia?«No. È un sentimento che non ha attecchito e con me non ha funzionato. Al con­trario, provo spesso un sentimento di ammirazio­ne. Sono contento di am­mirare una cosa che mi e­sprime meraviglia e mi sor­prende. Però non voglio prendere il posto dell’am­mirato. L’invidioso invece si crede autorizzato a so­stituirsi alla persona o alla cosa invidiata. No, no, per me l’invidia è transitiva. L’ammirazione è intransi­tiva. E io ne sono capace, ma certo non farei il viag­gio per andare a occupare il posto di un altro. Mi ten­go quello che ho, anche perché il mio non l’ha vo­luto nessuno».Tra i dieci comandamenti scolpiti nella roccia a bussola de­gli uomini, ce n’è qualcuno con cui hai avuto spesso a che fare?«'Dai peso a tuo padre e a tua ma­dre'. Ho avuto la fortuna di averli vicini a lungo, quindi sono affezio­nato a quel comandamento».Però non è stato sempre così: da ragazzo te ne sei andato di casa…«Sì, sono uscito. Mi sono allonta­nato da loro e poi li ho ritrovati più in là, più avanti nel tempo». E ritrovandoli, cos’hai scoperto dei tuoi genitori?«Che mi avevano sempre seguito, anche da lontano. Non mi aveva­no mai dato per disperso. Né si e­rano rassegnati alla mia distanza».