Agorà

L'intervista. Davoli in scena. Mi manda Pasolini

Massimiliano Castellani domenica 21 giugno 2015
Parli con Ninetto Davoli e ti sembra di riascoltare quella risata del “ragazzo di vita” di ieri che in Uccellacci e uccellini con candore domanda a Totò: «A Papà mesà che la vita nun è niente...». Oggi, a 66 anni, Ninetto, figlio di calabresi, nato a San Pietro a Maida (Catanzaro), ma cresciuto a Roma, nella baraccopoli di Borghetto Prenestino, è consapevole che la sua «è stata invece una vita incredibilmente piena, grazie a Pier Paolo Pasolini. Quando mi chiedono aneddoti o un ricordo particolare me metto a ride, perché io Pier Paolo lo ascolto ogni giorno, la sua voce e le sue parole le porto sempre dentro di me…». Una comunicazione esclusiva («un privilegio direi»), quella tra il poeta e il ragazzo di borgata che non si è mai interrotta, neppure dopo quel tragico 2 novembre 1975 in cui Pasolini venne assassinato all’Idroscalo di Ostia. Ninetto, stessa passionaccia popolare, stesso sorriso e identico casco di riccioli - solo “innevati” dal tempo - continua ad omaggiare la memoria del suo amico-maestro («che al di là dei nove film fatti con lui mi ha insegnato tutto. E io forse gli ho insegnato a ridere della vita») e lo fa anche in questi giorni al 58° Festival di Spoleto dove va in scena con  Il Vantone di Plauto (regia di Federico Vigorito, al Teatro San Nicolò, il 27 e 28 giugno). La traduzione - in doppi settenari e in rima baciata - è di Pasolini. Una traduzione in romanesco del “Miles gloriosus” (pubblicata da Garzanti, nel 1963) per cui molti si interrogarono: quale messaggio intese lanciare Pasolini con Plauto? «Innanzitutto quella traduzione la fece per Vittorio Gassman che poi non la portò mai in scena. A Pier Paolo il nostro teatro non lo attirava, rifuggiva dal “birignao” degli attori italiani e solo per la grande amicizia che nutriva per Laura Betti si convinse a scrivere “Orgia”». Insomma puro esercizio di stile e nessuna denuncia sociale ne “Il vantone” pasoliniano? «Pier Paolo veniva dall’esperienza cinematografica di Accattone, era attratto dal dialetto, dal romanesco, la lingua della città che amava. Poi certo, nella trama di Plauto c’è l’attacco al soldato spaccone, Pirgopolinice, al ricco convinto che con i soldi si può comprare tutto, persino l’amore, ritrovandosi alla fine smascherato. Un uomo miseramente ridicolo... Me pare molto attuale il messaggio o sbaglio?». Non sbaglia. In questa commedia plautina Ninetto che ruolo gioca? «Il “Vantone” è Edoardo Siravo, ma il mio è un ruolo importante per la storia: interpreto Palestrione, il servo furbo che organizza l’impiccio, lo smascheratore delle tresche». Il romanesco è la sua lingua madre, ma quel dialetto che Pasolini adorava adesso chi lo parla? «Purtroppo quasi nessuno. Il romano d’oggi parla una lingua finta, italianizzata, per niente bella a sentisse. Non so quanto tempo è che non sento più qualcuno che dica: Mo se nun te stai zitto t’ammollo una leccamuffa - ride di gusto -. Sarebbe musica celestiale per le mie povere orecchie». Il dialetto si è estinto, invece del pensiero forte e della poetica civile di Pasolini cosa è rimasto? «Tutto. Perché tutto quello che diceva e scriveva cinquant’anni fa si è drammaticamente avverato nella nostra società. Penso alla tv che Pier Paolo trovava un “giocattolo meraviglioso”, ma che messo in mano a persone aride, di bassa cultura, avrebbe trasformato il pubblico in dei soldatini che vestono e pensano tutti alla stessa maniera. E anche quella sua profezia che saremmo arrivati alla distruzione totale, con un ritorno a uno stato di natura, mi pare che sia una prospettiva tutt’altro che distante dalla realtà in cui viviamo...». “Stupenda e misera città che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini...”. Sono i versi che Pasolini dedica a Roma ne “Il pianto della scavatrice”... «La conosco bene quella poesia. Beh anche quella Roma non c’è più, perché non c’è più la gente di quella città. Tutti i miei amici, i vecchi ragazzetti de borgata, crescendo e mettendo su famiglia, sono sprofondati nel consumismo. Al Prenestino ci torno qualche volta, ma dove stavano le baracche alla fine degli anni ’70 hanno spianato tutto per costruire palazzoni, case popolari e campi sportivi. C’è rimasta solo la chiesetta di Sant’Agapito dove andavamo a giocare a pallone e lì ci stava un prete che mi dava da mangiare. E io magnavo parecchio, c’avevo sempre fame. Che brutta che era la fame e la povertà in quegli anni....». Ha accennato a una chiesetta, con Pasolini discutevate mai di religione? «No, quasi mai. Ma a modo nostro credevamo. Gesù per “noi” è un rivoluzionario, un esempio per gli uomini e lo stesso penso di papa Francesco che sarebbe piaciuto tanto anche a Pier Paolo. Il vangelo l’ho scoperto facendo il pastore ne Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo e quello per me resta il vangelo. Così come per me san Francesco è quello di Uccellacci e uccellini». Ma è vero che la prima volta che incontrò Totò gli rise in faccia? «Con Pier Paolo andammo a parlare di Uccellacci e uccellini a casa di Totò, ai Parioli. Ci aveva invitato a cena, suonammo alla porta e quando apparve il “Principe” stava in vestaglia rossa con i pon-pon e stì occhialoni scuri. Aho, io so sbottato a ride. Era come al cinema, quando tra un bruscolino e l’altro vedevo la maschera di Totò ridevo felice come un pazzo... Pier Paolo durante la cena mi dava gomitate per farmi smettere di ridere, ma non c’era verso...». E Totò come la prese? «Da gran signore quale era. Abbozzò, dicendo a Pier Paolo: “È un ragazzo, lo lasci stare”. Poi sul set fu molto paterno nei miei confronti, pieno di consigli e di un’umanità che non ho più trovato in nessun altro attore. Con la sua compagna, Franca Faldini, anni dopo parlammo di quella cena in cui lei era presente e mi confessò che appena ce ne andammo Totò prese il ddt e si mise a spruzzarlo sulla mia sedia e diceva: “Chissà dove dorme questo qua la notte?”- e giù a ridere - ». Dopo Totò, Pasolini per il film “I magi randagi”, voleva un altro monumento della cultura napoletana: Eduardo De Filippo. «Eduardo era l’unico attore teatrale italiano che Pier Paolo stimava e che secondo lui valeva la pena di andare a vedere, e io lo seguivo volentieri. Era tutto pronto per quel film, ma poi Pier Paolo morì... Sergio Citti copiò l’idea, ma i suoi “Magi randagi” sono un’altra cosa. Mentre il “Casotto” di Citti, in cui ho recitato, è un capolavoro e un giorno mi piacerebbe portarlo in teatro. Con Michele Placido è tanto che ne parliamo». Si è tanto discusso anche del film “Pasolini” di Abel Ferrara in cui Riccardo Scamarcio interpreta Ninetto Davoli. «Una delle soddisfazioni di quel film è stata proprio Scamarcio che fa me. Abel Ferrara non ha seguito molti dei miei consigli sulla sceneggiatura e così durante la lavorazione abbiamo discusso spesso. Però, va anche detto che non è facile raccontare Pier Paolo, servirebbero dieci film, e Ferrara comunque l’ha fatto con grande sensibilità e con rispetto». Dopo tante fiction tv, il ritorno al cinema con Ferrara le ha portato un premio prestigioso: il Nastro d’argento alla carriera. «Vero, e la cosa mi è piaciuta talmente tanto che alla premiazione ho detto: aho, io ce ritorno qua. Tra cinquant’anni ne voglio un altro di Nastro». Ci lasciamo con l’ultima risata fragorosa e quel timbro inconfondibile, che sembra di riascoltare Ninetto che dice a Totò: «A papà, come me piacerebbe esse un pappagallo, così campo dutrecent’anni».