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Lo spettacolo Dissolvenze. Dallo sgombero al palcoscenico: il teatro è Rom

Angela Calvini venerdì 10 luglio 2015
Una risata irrefrenabile e inquietante di bambina spezza il silenzio ed emerge dal buio. «Una volta era il Plat. Nella vostra lingua non significa nulla. Una volta era il mio mondo che ora è scomparso nel nulla. E mi manca, eccome se mi manca»… Florentina ha tra le mani una palla da discoteca che trasforma la luce di una pila in centinaia di stelle man mano che sale allontanandosi dal palco come un piccolo pianeta perduto per sempre. Nata in Romania, 12 anni, occhi vispi e capelli neri lunghissimi, lei il suo pianeta l’ha perso lo scorso gennaio, quando il campo rom di Lungo Stura Lazio nella parte Nord di Torino, il più grande d’Europa, detto dalla comunità “il Plat”, è stato sgomberato su ordinanza del Tribunale per le condizioni di degrado in cui vivevano i suoi 800 abitanti. Un mondo fatto di topi, fango e povertà, ma anche di allegria, affetti e spirito di comunità. Una parte di loro, come la famiglia della ragazzina, è stata trasferita dal Comune in case legate a un progetto di social housing, i non aventi diritto sono stati rimpatriati in Romania con un piccolo sostegno economico. Notizie che spesso passano inosservate se non fosse che due giovani e coraggiosi registi, Massimiliano e Gianluca De Serio (autori del pluripremiato film Sette opere di Misericordia con Roberto Herlitzka) hanno deciso di raccontarla “dal di dentro” con un doppio progetto, un documentario per il cinema di prossima uscita e uno spettacolo teatrale, Dissolvenze che inaugurerà il 15 luglio al Teatro Astra di Torino il festival Teatro a Corte, prodotto dalla Fondazione Teatro Piemonte Europa.«Brava Flo, anche se sbagli non ti preoccupare», grida dalla platea Gianluca De Serio con tono affettuoso, mentre il fratello gemello Massimiliano mostra alla ragazzina sul palco come deve muovere il braccio. Si prova a ritmo serrato, anche perché per i De Serio è il debutto nel mondo del teatro e gli attori non sono dei professionisti, ma sono tutti rom del Plat. «Io sono emozionatissima. Domani chiamo le mie 7 maestre e chiedo se riescono a invitare loro i miei compagni di scuola», racconta Florentina che frequenta la prima media. La accompagna mamma Maria, 28 anni e 4 figli piccoli, così minuta da sembrare sua sorella. «La mamma chiede l’elemosina, come pure mio papà» spiega serena la bambina. Lei sogna di fare la dottoressa o la cantante, ama Laura Pausini e Fedez, ma anche l’attrice: «Io spero che raccontare chi siamo in questo spettacolo faccia diventare la gente meno razzista». «Noi siamo cresciuti e tuttora abitiamo vicino a quel campo, siamo figli di quegli immigrati dal Sud venuti a Torino per fare gli operai», racconta Gianluca, una goccia d’acqua con Massimiliano. Studi d’arte uno, di cinema l’altro, i due 35enneni hanno sempre lavorato insieme, puntando sulla realtà del documentario. «Abbiamo deciso di raccontare questa piccola grande Apocalisse vivendo un anno e mezzo con le famiglie del campo». Non è stato semplice, le diffidenze reciproche erano tante, i rom avevano sempre avuto a che fare con giornalisti, politici, operatori sociali, mica con i registi. «Abbiamo rodato un metodo usato anche in altri lavori come Bakroman sui bambini di strada del Burkina Faso – spiegano –. Non avere mai un atteggiamento dall’alto verso il basso, non fare come l’entomologo che osserva le formiche, ma farci noi formiche. Si è instaurato un rapporto umano di scambio profondo». «E – aggiungono – abbiamo filmato tutto. La vita quotidiana, come si affrontano la vita e la morte, la distruzione delle baracche, il trasferimento in case nuove dove però si spezzano le comunità e si creano dei teledipendenti. E abbiamo anche seguito quelli che sono stati rimandati in Romania con qualche soldo, presto finito. Molti stanno già tornando in Italia». Tutto questo finirà nel film, ma una parte delle immagini vengono proiettate a teatro, a fare da sfondo all’azione degli attori. «Abbiamo incontrato Florentina mentre cullava un nipotino cantando Bella Ciao che aveva imparato a scuola. Un paradosso che ci ha spiazzato illuminandoci. Abbiamo deciso, quindi di raccontare lo sgombero e lo sradicamento delle famiglie con gli occhi di una ragazzina. Nel film ci sono le storie dell’italiano Settimo e Ianela, che raccattano il rame qua e là, o di Ion Tanase che torna in Romania e cerca di campare comprando qualche pollo da rivendere, finché un’alluvione non gli porta via tutto. «Spunta fuori pure papa Francesco, perché casualmente quando nella nuova casa di Florentina viene acceso il televisore appare proprio lui nell’atto di benedire la popolazione rom in piazza San Pietro» spiegano i registi. «Il Papa prega per noi e noi preghiamo per il Papa» ci racconta sorridendo Marcelo, pelle scura, camicia a fiori sgargianti, che è diventato pastore pentecostale dopo che il figlio di 9 anni, malato senza speranza, è tornato alla vita. «Devo fare le prove in fretta perché stasera ho la messa», ci spiega. Sul palcoscenico, mentre alle spalle si mostrano le immagini vere della distruzione delle baracche, Marcelo invoca con passione la presenza del Signore in mezzo a noi. «Una preghiera che diventa un atto di resistenza – spiega Massimiliano – come pure la lenta ricostruzione di una baracca sul palco da parte di tre romeni». A teatro, a differenza del film diretto e forte nelle sue immagini, l’atmosfera si fa onirica, ricca di musica e ironia. «Noi siamo degli osservatori dell’oggi ma con occhio compassionevole. Ci domandiamo che fine faranno queste vite sospese. Ma abbiamo anche la sceneggiatura del nostro prossimo film, un’altra storia di caduta e di riscatto. Noi non abbandoniamo gli invisibili».