Agorà

URBINO. Da chi imparò l’arte il giovane Raffaello?

martedì 21 aprile 2009
Parliamo di una piccola rivoluzione. Una rivoluzione fondata sulla scoperta di un cospicuo numero di documenti che di danno un’idea meno imprecisa della storia urbinate negli anni in cui Raffaello, bambino e poi ragazzino, cresceva e si avviava sulla strada della pittura. Fino a qualche decennio fa si credeva ancora alla leggenda dell’apprendistato del giovane Raffaello presso il Perugino, accreditata da Vasari, il quale peraltro annota anche che fu «di grande aiuto al padre in molte opere che Giovanni fece nello stato di Urbino». La storiella del Perugino maestro di Raffaello, benché non suffragata da documenti di prima mano, ha prevalso fino ad anni recenti. La morte precoce di Giovanni Santi nel 1494, quando il figlio aveva undici anni, poneva ai biografi il problema di chi avesse trasmesso l’arte a Raffaello (in alcuni documenti, appena diciassette anni già viene chiamato «magister» e «illustris»): dovendogli trovare un maestro, chi meglio del Perugino, che Vasari non amava, poteva servire a fondare il mito del «divin pittore»? Nel 1822 Luigi Pungileoni pubblicò a Urbino Elogio storico di Giovanni Santi pittore e poeta padre del Gran Raffaello di Urbino, stabilendo un repertorio documentario che ha fatto testo fino agli studi di John Shearman. Fino a ieri, quindi. Perché grazie alla tenacia di una studiosa dell’Università di Urbino, Anna Falcioni, che ha spulciato gli archivi a suo tempo consultati anche dal Pungileoni, sono emersi quasi settecento documenti, molti dei quali inediti, che descrivono il contesto urbinate tra fine Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, vale a dire il periodo formativo del giovane Raffaello (che nacque il 28 marzo 1483 e morì a Roma il 6 aprile 1520). E di questi documenti ben 136 parlano in qualche modo di lui, come ricorda Lorenza Mochi Onori nel catalogo della mostra apertasi pochi giorni fa alla Galleria Nazionale. Le rivoluzioni, talvolta, si fanno con la certosina pazienza del topo d’archivio e di biblioteca, e certamente la nuova documentazione consente di capire meglio la posizione che ebbe la famiglia Santi a Urbino mentre Raffaello riceveva i primi rudimenti del disegno e della pittura. E da chi poteva averli se non dal padre? La psicoanalisi vuole convincerci che l’uccisione del padre sia un passaggio necessario per la maturazione individuale. Può darsi. Il fatto è che Raffaello non ebbe il tempo di tagliare il cordone ombelicale paterno perché Giovanni morì presto, quando il ragazzino aveva già perso la madre da tre anni. Qui iniziò anche un contenzioso giudiziario che durò parecchi anni, perché lo zio di Raffaello, don Bartolomeo, impugnò il testamento che il fratello Giovanni aveva dettato a due riprese pochi giorni prima di morire. Sposatosi in seconde nozze con Bernardina (un anno dopo la morte di Magia, la madre di Raffaello), Giovanni concedeva alla seconda moglie l’usufrutto della casa, la restituzione di una parte della dote e altri beni secondari. Ai Santi questo non andò giù. La storia non è edificante, e ci mostra il giovanissimo Raffaello impegnato contro la matrigna, al contrario di quel che ancora pensava Shearman, sulla scorta di Pungileoni, ovvero che il ragazzo non fosse mai comparso davanti al notaio durante il contenzioso giudiziario. Queste beghe familiari sono solo lo sfondo storico della mostra che Urbino dedica agli anni di formazione di Raffaello (catalogo Electa). A dire il vero l’eroe di questa storia è proprio Giovanni Santi. Padre, ma anche maestro del «Gran Raffaello». Sorprende la durata di uno stereotipo che avrebbe dovuto mettere la pulce nell’orecchio a tanti dopo Vasari. Giovanni Santi fu un bel pittore, ma non un genio; pur non essendo portato per gli affari – pare fosse questa la ragione che lo spinse a farsi pittore e poeta – fu tuttavia un buon amministratore di se stesso, organizzò una bottega che gestì commissioni di rilievo e fece lavorare molti artisti del luogo (anche se i documenti offrono pochi chiarimenti in proposito). Fu stretto collaboratore della corte urbinate, senza diventarvi organico. Quando si guarda la sua pittura si sente il peso, la costruzione della scena, la saturazione dello spazio: come se Giovanni, di fronte al quadro, si facesse prendere dall’ansia di colmare il vuoto, dall’horror vacui. Chissà che cosa pensava il figlio, che certamente cominciò guardando il padre che dipingeva? L’imprinting di Raffaello sembra venire da una pittura più luminosa, come quella di Piero della Francesca, ma alleggerita dal mistero dell’aria, dalla chiarità che scioglie i corpi e la materia pittorica, anzi ne sublima la carne in corpo glorioso. È un mondo dove le ombre quasi si ritirano e quando appaiono sembrano avere un colore, secoli prima dell’impressionismo. Bellini, certamente; e una oggettività nordica, stemperata da un tono più «sensibile». In questa ricerca di «affinità elettive», il Perugino cade sullo sfondo, con quella bellezza un po’ frigida che Raffaello gli strappa dalle mani cambiandola di segno: tensione verso un ideale che non diventa mai fuga nella metafisica allegorica, o nella pittura eterna. Ciò che in Raffaello è grazia, in Perugino appare grazioso, come una pittura di larve; in ogni tocco del giovane urbinate si avverte, invece, un incipit carnale, un’ipoteca vitale. Nel quadretto della Sacra famiglia proveniente dal Prado c’è anche un’ombra autobiografica: il bambino a cavallo dell’agnello è sorretto dolcemente dalla Vergine, ma la forza che mette tutto in movimento è la diagonale che corre tra lo sguardo di Gesù e quello di Giuseppe. Si fissano intensamente, come avrebbero potuto guardarsi il piccolo Raffaello e suo padre, quasi che l’uno cercasse nell’altro una risposta che non può venire se non vivendo. Nonostante la pittura del giovane Raffaello raggiunga vette di lirismo cromatico fin lì mai viste, con trasparenze che fanno sembrare il mondo già redento, questa visione non nasconde una dose di sfrontatezza. Accade nel Cristo risorto dipinto ai primissimi del Cinquecento, centro focale delle opere che la Galleria Borghese aveva raccolto nel 2006 per documentare il periodo di passaggio da Firenze a Roma. In quel Cristo, che avrebbe ben figurato anche in questa mostra urbinate, c’è già la trasfigurazione dell’artista, il suo protervo autoritratto che sfida le convenzioni e mostra una bellezza carnale che osa scoprire il corpo del Risorto fino all’inguine. Ma è lo sguardo qui che si mette a nudo, infelice e con una smorfia di risentimento. Prima che la mondanità lo celebri come pittore divino, Raffaello, giovane, ma in realtà precoce anche nel consumare il tempo, anticipa la risposta al dubbio di Dostoevskij: la bellezza, di cui si sente l’artefice, non salverà il mondo. Ma forse sbagliava, come spesso accade ai giovani che vorrebbero ardere il mondo con la loro fame di totalità. E Raffaello era uno di loro, uno che «voleva tutto».

Urbino, Galleria nazionale RAFFAELLO E URBINO Fino al 12 luglio Raffaello