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Il confronto. «Cuties» & gli altri: le domande (scomode) della tivù

domenica 27 settembre 2020

Amy con la mamma

È un film che pone domande serie in modo spigoloso ma efficace, occasione per dibattiti da cineforum? Oppure siamo di fronte un’opera eccessiva e smaccatamente volgare, che è meglio evitare? Appena diffuso il 9 settembre da Netflix per i suoi abbonati, Cuties (o Mignonnes, titolo originale francese della pellicola diretta dalla regista franco-senegalese Maimouna Doucouré) ha sollevato questioni di linguaggio e sostanza che vanno oltre l’opera in sé, spingendo a chiedersi come affrontare la sovrabbondante offerta televisiva di film e serie tv accessibili anche da smartphone e che sempre più spesso presentano contenuti problematici. «Avvenire» ha messo a confronto in un forum online quattro esperti di televisione, cinema e adolescenza, tutti con una esplicita vocazione educativa, in dialogo con tre giornalisti del quotidiano (Massimo Calvi, Antonella Mariani e Francesco Ognibene). Eccone il resoconto.

I PROTAGONISTI DEL DIBATTITO

Giovanni Baggio
Nato a Semogo (So) nel 1961, è sposato, ha 2 figlie, è diacono dell’Arcidiocesi di Milano e dirigente scolastico. Dal 2018 è presidente nazionale dell’Aiart, l’associazione cattolica di teleutenti per la cittadinanza mediale. È docente del laboratorio su Media e famiglia nel corso in e-learning dell’Università Lateranense. Ha pubblicato «Medi@nte» (Effatà) e «Dal papiro al silicio» (San Paolo).

Andrea Fagioli
Fiorentino, classe 1956, è critico televisivo di «Avvenire», quotidiano del quale è stato caporedattore. Laureato in lettere, già direttore del settimanale «Toscana Oggi», è giornalista professionista. Sposato, tre figli, ha sempre svolto la sua attività nella stampa cattolica.

Armando Fumagalli
Ordinario di Semiotica all’Università Cattolica, dirige presso lo stesso ateneo il Master in «International Screenwriting and Production». È anche consulente per il gruppo televisivo Lux vide.

Cecilia Pirrone
Psicologa e psicoterapeuta milanese, è sposata e ha tre figli. Da vent’anni libera professionista, si occupa di famiglia, infanzia e adolescenza. Insegna Psicologia dello sviluppo all’Istituto superiore di Scienze religiose della Facoltà teologica di Milano. Autrice di numerose pubblicazioni, collabora con il Servizio Famiglia della Diocesi di Milano e con «Noi Famiglia & Vita».

Avvenire. Qual è il vostro giudizio su Cuties e i temi che affronta?

Fagioli. «È comprensibile la reazione polemica che c’è stata in giro per il mondo alle immagini un po’ ambigue e pruriginose di Cuties fatte circolare da Netflix per promuovere il film. Quello che non capisco è che non si sia accettato di distinguere le immagini estrapolate e decontestualizzate dal prodotto in sé: la stragrande maggioranza di chi ha contestato il film, anche pesantemente, credo che non l’abbia proprio visto. L’ho rivisto e studiato sequenza per sequenza, e va detto che non è certo un capolavoro: ci sono luoghi comuni, banalità, semplificazioni. Però è un film corretto, e tutt’altro che furbescamente orientato a sfruttare la sessualizzazione delle ragazzine. È fatto di contrapposizioni e di reazioni. Basti pensare all’inizio e alla fine: nella prima inquadratura Amy piange, così come farà interrompendo il tanto contestato balletto; l’immagine conclusiva invece è di Amy che gioca, salta la corda, e ride. La pellicola si gioca tra questi due opposti, come opposte sono le immagini della donna (oggetto o soggetto) o del corpo (penalizzato o esaltato). Delle ragazzine del film conta, soprattutto, il contrasto tra l’essere bambine e ciò che è al di sopra e al di fuori di loro. Amy fa tutto per reazione, vuole affermare se stessa come donna, anche con i gesti più controversi. Però resta una bambina, e quando ne riprende coscienza corre dalla mamma per abbracciarla. Ma per arrivarci serviva una rottura: solo allora accetta felicemente di essere ciò che è».

Avvenire. Nella recensione apparsa su Avvenire del 16 settembre parli di film «educativo», un’aggettivazione usata poi nel titolo – opera della redazione – che è stato molto contestato. Alla luce del dibattito e delle critiche, useresti ancora lo stesso termine?

Fagioli. «Lo userei con l’intenzione che ho messo nell’articolo. Anzitutto il film non va fatto vedere a tutti, Netflix stessa lo vieta ai minori di 14 anni, il massimo del limite rimasto. Sono convinto che letto e presentato correttamente può diventare un film 'educativo' nel senso di fornire elementi utili a chi si occupa di educazione. Senza queste condizioni, qualunque film può diventare negativo».

La regista Maimouna Doucouré - .

Baggio. «Il problema che Aiart ha sollevato è legato al pubblico di Netflix, che sfugge a qualsiasi mediazione per il tipo di canali tramite i quali accede ai contenuti. La messa in onda su una piattaforma di streaming video e i trailer del film inducono a pensare che l’educazione non fosse certo la prima preoccupazione di chi ha realizzato e diffuso questo prodotto. È decisivo interrogarsi sulla finalità dell’operazione: se Netflix avesse voluto aprire un dibattito su questi temi – l’infanzia rubata, l’adolescenza precoce, la rincorsa di una certa immagine pubblica del proprio corpo – avrebbe dovuto presentare il film in modo molto diverso. I temi ci sono, interessanti e capaci di suscitare reazioni, ma l’intenzione della piattaforma cambia tutto. Sono rimasto anche deluso dal percorso del personaggio di Amy: non vedo una parabola ma un vicolo cieco, quasi la condanna a restare nella sua condizione infantile, senza via d’uscita né emancipazione. O si è esplosive oppure è meglio tornare nel proprio nido, in una condizione priva di sviluppi nel rapporto con il mondo, gli adulti e se stesse. È la storia in sé che mi lascia perplesso: al di là delle scene, sulle quali possiamo discutere, non sembra esserci spazio per una evoluzione 'normale'».

Avvenire. Sono circolati giudizi molto pesanti sul film con accuse di pornografia e pedofilia. Dopo averlo visto, si sente di condividerli?

Baggio: «Li capisco, siamo stati subissati anche noi di Aiart da pressioni per rinnovare quel che avevamo già detto sulla brutta locandina. I trailer sono stati molto maldestri, con ammiccamenti fraintendibili. Resta da chiedersi se Netflix abbia a cuore il dibattito oppure ben altro. Non tutti i nostri ragazzi vivono la condizione che il film illustra... Mi chiedo se non stiamo tutti rincorrendo le conseguenze prodotte da chi intenzionalmente ha gettato un masso nello stagno per creare un effetto».

Fumagalli: « Cuties è stato prodotto dalla tv francese attraverso France 3 e da Canal+. Il film ha vinto un premio al Sundance Festival nel gennaio di quest’anno, poi è stato a Berlino. In Francia è uscito nelle sale in agosto, e poi distribuito in tutto il mondo da Netflix in settembre. La campagna contro Netflix dunque poteva essere diretta contro la televisione francese, perché Netflix ha acquistato un film già pronto, poco prima del Sundance. Intendo dire che ognuno ha la propria responsabilità. Per parte sua, Netflix ha sbagliato a scegliere per il lancio il famigerato poster con le ragazzine semi-svestite ritratte in atteggiamenti ambigui. Credo che le intenzioni della regista fossero buone: il suo intento era la denuncia della sessualizzazione precoce delle bambine, ma dove ha sbagliato è nell’eccedere in sequenze troppo lunghe ed esplicite di balletti esageratemente sensuali, scene che potevano essere 'asciugate' senza che la storia ne risentisse. Il film è un testo molto complesso che muove molte letture a seconda della tipologia di spettatore. Va ricordato che Netflix è un distributore globale, e lo stesso prodotto ha un impatto molto diverso in un Paese o in un altro. Chi realizza e diffonde opere simili dovrebbe tener conto che sono destinate a un pubblico globale molto differenziato, e che proprio per questo temi delicati vanno affrontati con grande attenzione. Un altro problema di film come questo è che se da una parte possono 'svegliare' gli educatori d’altro canto, visti senza filtri da un pubblico di ragazzini, possono suscitare un desiderio di emulazione».

Amy - .

Fagioli: «Distinguo Netflix dal film: la piattaforma tv non ha e non avrà mai intenti educativi, fa business. Quello che conta e che dobbiamo giudicare è il prodotto finito, non le intenzioni della produzione o della promozione». Pirrone: « Cuties è un film che ti inchioda allo schermo, ti incuriosisce e ti 'tormenta'. Un film forte, duro, senza mezzi termini. Un film per adulti e certamente poco adatto ai pre-adolescenti, utile invece per un dibattito tra educatore e adolescente. Offre numerosi spunti di riflessione e tocca diversi temi: l’amicizia, le famiglie immi-grate, la solitudine dei ragazzini di oggi, la sessualizzazione precoce e l’ipersessualizzazione. Ma il tema che vorrei sottolineare è la preadolescenza: oggi ormai è considerata una vera e propria fase evolutiva da riconoscere, al punto che alcuni vi trovano caratteristiche distintive e proprie. Si tratta di un segmento di raccordo che quanto più è vissuto bene tanto più può aiutare negli anni successivi di crescita. È 'l’età delle grandi migrazioni': da un corpo infantile verso un corpo adulto, dalla famiglia come unico riferimento all’ingresso nel gruppo dei pari, da una forte appartenenza scolastica al senso critico nei suoi confronti, da una religiosità legata alla frequenza della chiesa a una più soggettiva e personalizzata, da una definizione di sé fondata sull’identificazione all’elaborazione di una propria identità personale e sociale. Dentro a questo contesto di cambiamento Amy ha bisogno di amicizia, è attratta dalle quattro coetanee ballerine, sa inserirsi nel gruppo non senza sforzi (impara i passi di danza di nascosto) e sotterfugi (guarda il cellulare sotto il velo durante la preghiera islamica). I ragazzi e le ragazze dai 10 ai 14 anni sono sottoposti a molteplici, radicali e impegnativi cambiamenti, che non sanno ancora elaborare a livello psicologico. Si parla non a caso di 'sviluppo asincronico': la crescita fisica e sessuale anticipa quella cognitiva e sociale. Amy e le sue amiche, ascoltando quanto percepiscono col corpo, attraverso le emozioni e i pensieri che l’accompagnano, cercano di 'essere'».

Avvenire. Dal nostro dibattito stanno emergendo alcune questioni, che proviamo a riassumere con una serie di domande: era proprio necessario trattare un tema così difficile con attrici tanto giovani? È questo il prezzo da pagare oggi al mercato televisivo? Scelte simili trovano riscontro in centinaia di serie tv su tutte le piattaforme, in cui ormai violenza e morbosità sono spinte all’estremo: ma esiste un limite?

Amy con una compagna di ballo - .

Fagioli: «Credo che fosse necessario ricorrere a bambine per interpretare le protagoniste della storia, se il tema è quello dell’essere bambini oggi 'costretti' a crescere troppo in fretta per effetto delle spinte della società adulta. Sono reperibili in questo momento molte serie tv, come Skam o Baby, dove si racconta qualcosa di simile con ragazzi più grandi ma per fare discorsi un po’ diversi. Per produrre il suo effetto un film, come qualunque altra opera di comunicazione, deve anche colpire chi lo guarda. In Cuties non vedo però un eccesso rispetto al contesto. I momenti più audaci sono prolungati, è vero, ma sono pochi, e con un intento trasparente: è sempre Amy a spingere le sue compagne di ballo a eccedere, all’inizio per farsi accettare da un gruppo che la respinge, poi per diventarne addirittura leader. E per farlo deve andare oltre quello che hanno osato le altre, pronta a un gesto – anche più forte dei balletti – che mette persino a rischio la vita di una delle compagne. Qui però bisogna riflettere su un altro problema, a mio avviso il più grave di tutti: l’estrema facilità di accesso alla pornografia vera da parte dei ragazzi, che infatti la consumano in massa. A consentirlo è lo smartphone che spalanca la porta anche a comportamenti preoccupanti sui social. La prima nostra battaglia dovrebbe puntare a impedire l’accesso dei ragazzi alla pornografia. Se poi volgiamo lo sguardo alle tv generaliste, troviamo programmi veramente diseducativi: penso – per fare solo un esempio – all’impatto che può avere sui minori Temptation Island, molto seguito anche tra i ragazzi. L’argine resta l’educazione, che chiama in causa il ruolo della famiglia: lo stesso Cuties mostra bambine di fatto abbandonate a se stesse. Molti genitori non si rendono conto dell’entità del problema di un accesso facilissimo a contenuti pesantemente negativi. Penso che un film come questo possa contribuire a svegliarli».

Baggio: «Il consumo familiare è ormai superato da quello individuale. Questo fa venir meno luoghi di confronto e di filtro, a meno che non siano posti in essere da qualche adulto. Un certo tipo di produzione tv che effetti suscita in un ragazzo, se non c’è un genitore che decide di aprire un confronto? L’Aiart da anni parla di corresponsabilità sociale, cioè di condivisione da parte di tutti nella costruzione di una socialità più attenta a ciò che si offre ai soggetti più vulnerabili. I luoghi del confronto sono scarsi e spesso ininfluenti nei processi che formano la visione della realtà. Non nego che Cuties possa aprire interrogativi, ma mi chiedo chi li raccoglie, e in quale tessuto. Occorrono genitori competenti, insegnanti illuminati, ragazzi aperti alle domande: ma non sarà un mondo ideale, auspicabile ma che non esiste per davvero? Questo film ci chiede come si fa a diventare grandi, lo fa mostrandoci un modo sbagliato ma senza indicarci il passo successivo. Non ci spiega come può crescere una ragazzina di questa età e in questa società».

Pirrone: «La giovane età delle ragazzine 'stona', ma al tempo stesso è proprio ciò che fa riflettere. Non è un racconto lontano dalla realtà se si pensa che queste undicenni hanno come baby sitter la Rete: un luogo dove l’importante è avere like, apparire, essere visti. Le ragazzine non mostrano la minima consapevolezza: a Amy non importa nulla dei commenti sulla foto intima che ha postato, è completamente ignara delle possibili conseguenze. Le interessa il ballo, l’amicizia: è la vera preadolescente, una ragazza all’oscuro di quello che potrebbe succederle, anche di come i contenuti a sfondo sessuale possano plasmare la sua spontaneità, distorcere l’immagine di sé e della realtà, coltivare una cultura dell’apparire, confondere, esercitare una forte stimolazione».

Fumagalli: «Nella scelta di ricorrere a bambine la regista ha intenzioni corrette, ma è vero che in queste produzioni spesso si cercano interpreti più grandi che sembrino più piccoli, proprio per evitare rischi in scene problematiche. Va bene tutto? Certo che no, occorre particolare attenzione. Il tema è molto delicato toccando sensibilità diverse, dunque richiede una trattazione altrettanto prudente, che in questo caso poteva essere più curata. Ormai siamo abituati a vedere qualunque contenuto su qualunque mezzo: un film come questo destinato ai cinema arriva in televisione, sul computer o sullo smartphone dove può essere visto senza filtri anche da un bambino piccolo, che ci arriva in un paio di clic».

Amy di spalle con tre componenti del suo gruppo - .

Avvenire. Produttori e distributori di contenuti video si stanno ponendo una domanda su questi aspetti oppure c’è una corsa senza freni?

Fumagalli: «Difficile generalizzare, dentro questo mondo ci sono persone con senso di responsabilità e attenzione molto differenti. Il rischio è che la spinta del business porti a compiere scelte sempre più discutibili e che si punti su contenuti che promettono di portare ascolti e profitti senza farsi troppi scrupoli. Certo, si tende a far sì che nei momenti e nei posti decisivi non ci sia chi si pone la domanda sul fatto che determinati contenuti alla gente possono far bene o no... Cuties è stato approvato e finanziato da svariate agenzie pubbliche francesi, evidentemente perché si è ritenuto che trattasse questioni importanti. Che poi ci sia riuscito o meno è tema, come vediamo, assai dibattuto. Non è irrilevante che il film sia francese e non americano, si tratta di due sensibilità molto diverse».

Avvenire. Molte serie sono frutto di una cultura hollywoodiana lontana dalla nostra, un fatto evidente quando – ad esempio – entrano in campo questioni relative all’identità sessuale. Prodotti come «Modern family», «The Politician», o anche «Friends», e persino produzioni Disney, propongono personaggi apertamente bisessuali, anche molto giovani. In che modo un simile approccio può influire su come i nostri figli affrontano questi temi?

Fumagalli: «Hollywood non corrisponde all’America così com’è, ma è un contesto culturale capace di diffondere in tutto il mondo idee e una way of lifeben precise. Nella cultura 'ufficiale' americana oggi è grande la pressione di quella che sinteticamente è definibile come 'ideologia gender', secondo la quale l’identità sessuale è una libera scelta di ciascuno, mutevole a piacimento e che non ha nulla di naturale, per cui non ci sarebbe più alcun motivo per privilegiare una scelta rispetto a qualsiasi altra. È un’ideologia che in questo momento è fortissima e che ha prodotto numerose conseguenze, culturali e legislative. Nel cinema è apparsa negli anni Novanta con pellicole come Philadelphia, fino ad arrivare a Brokeback Mountain, passando anche nelle serie televisive. Una pressione tale da sfondare persino le mura della Disney, considerata finora un posto 'sicuro' (è la chiave del suo business globale), facendo entrare contenuti problematici, sebbene sinora proposti in modo soft e non troppo esplicito».

Baggio: «Condivido questa analisi: in tante produzioni tv è sempre più presente la tematica di una sessualità aperta, e tra i giovani questo può creare disorientamento, stereotipi e soprattutto emulazione in una fase di ricerca della propria identità sessuale come l’adolescenza, con un impatto maggiore su personalità che vivono un periodo di particolare instabilità. Dove mancano luoghi nei quali condividere la propria ricerca e rielaborare le incertezze, i personaggi delle serie possono diventare modelli che portano a immaginare come la risposta alla propria crisi di identità sia non avere un’identità».

Fagioli: «Chi questa estate ha frequentato una spiaggia non può aver fatto a meno di notare la forte sessualizzazione delle ragazzine attraverso costumi che vanno ben oltre quelli di Cuties. Le bambine del film sono molto bambine, non hanno elementi di particolare connotazione sessuale, un dato fisico che fa risaltare il contrasto tra ciò che sono e quel che vengono spinte a diventare. Trovo più fastidiosa l’introduzione a ogni costo di temi connessi all’identità sessuale in film, programmi e serie tv, creando così la convinzione che essere gay o lesbiche oggi sia trendy, e inducendo all’emulazione».

Pirrone: «Oggi sembra tutto accessibile e possibile. Basta un clic e qualsiasi ragazzino può fruire di contenuti inadatti alla sua età. Non è però la Rete che fa male: a fare la differenza è come e quanto viene usata. Il compito degli adulti è indagare sul 'qui e ora' relativi a pc o smartphone fin da quando sono piccoli: cosa stai guardando? A quale sito stai accedendo? Questa app a cosa ti serve? Hai letto bene prima di iscriverti? È necessario che gli adulti stiano con i figli nel presente. I social veicolano messaggi relativi alla sessualità svincolati dal rapporto d’amore, inappropriati per i più giovani e vulnerabili, violando così il loro diritto a una formazione equilibrata».

Avvenire. Siamo evidentemente di fronte a uno scenario sempre più complesso, anche per la modalità spesso solitaria con la quale si accede a contenuti che richiederebbero una robusta attrezzatura culturale ed emotiva. Come possono affrontare questo mare irto di scogli famiglie e figure educative che si scoprono impreparate davanti a prodotti culturali costruiti con molti mezzi, elevatissima qualità e grandi capacità narrative?

Pirrone: «Mi chiedo dove sono gli interlocutori adulti di questi preadolescenti. 'I miei non li vedo mai, lavorano tutto il giorno...', dice una di loro in Cuties. Un figlio può tollerare tutto, ma non che un adulto getti la spugna dal suo ruolo di educatore. I ragazzi hanno bisogno di adulti che vivano la vita con intensità, con interesse, con curiosità, che dichiarino – non a parole, ma con i fatti – che ne vale la pena, che c’è una bellezza tutta da scoprire nello stare al mondo. I ragazzi sono dipendenti dalla tecnologia oppure sono carenti di rapporti nei confronti degli adulti, dei genitori, dei nonni? I nostri ragazzi chiedono disperatamente che gli diamo testimonianza con la nostra vita: è questo che guardano. Ma cosa vedono? Prendere una direzione diversa dalla massa oggi è davvero un’impresa, bisogna che meriti un impegno, perché lo scotto da pagare è molto alto: rimani isolato, fuori dal branco, escluso, perché se a 12 anni non ti sei messo a guardare su Youtube video un po’ spinti rischi di passare l’intervallo attaccato al calorifero, senza argomenti di cui parlare con alcuni compagni. I ragazzi hanno bisogno di garanti che li aiutino a formulare ideali realistici, possibili e durevoli nel tempo. Senza questa garanzia esterna, l’accesso al mondo adulto diventa un’avventura solitaria e senza riferimenti. Ed è proprio così che Amy e le sue amiche vivono i social, lo stile della danza, il rapporto con la sessualità».

Baggio: «Bisogna uscire dal silenzio: i genitori non possono accettare questa posizione di subalternità. È una questione di consapevolezza del proprio ruolo e di che tipo di accompagnamento occorre oggi – e servirà domani – per far crescere un figlio. La stessa preoccupazione nella prima infanzia per l’alimentazione del figlio dovrebbe proseguire nell’adolescenza su ciò lo 'nutre', senza lasciarsi mettere in scacco. Bisogna stare dentro il dibattito e la situazione attuali senza mai rinunciare al proprio ruolo adulto di guida, con cammini personali di riflessione e comprensione. È ciò che chiamo il 'progetto culturale della famiglia', l’idea di cos’è importante, cosa si vuole lasciare alla generazione successiva, cosa ha fatto della mia vita un’esperienza bella e significativa che voglio far incontrare ai miei figli. Oggi i genitori invece si sentono inadeguati rispetto alla preponderanza della tecnologia, quasi succubi, e rinunciano ad ascoltare i figli e le loro domande, forse nel timore di non avere risposte all’altezza. I ragazzi sono sempre ragazzi, esordienti su una scena dove però sovente non trovano nessuno: il problema infatti oggi sono gli adulti adolescentizzati, che devono ricostruirsi in modo credibile e riprendere a essere ciò che devono essere».

Fumagalli: «I genitori non devono cedere alla tentazione di arrendersi non sentendosi adeguati: facciano comunque tutto ciò che possono, ben sapendo che sarà imperfetto. Di fronte alle nuove tecnologie, al cinema e alla tv di oggi alcuni limiti vanno posti, ad esempio tenendo alta l’età in cui si mette lo smartphone nelle mani dei figli, un tema ben analizzato da Stefania Garassini in Smartphone. 10 ragioni per non regalarlo alla Prima Comunione (e magari neanche alla Cresima). Sono convinto però che occorra anche una strategia positiva, cercare e scegliere contenuti belli, di valore, e proporli ai figli accompagnandoli sempre un passo più avanti rispetto al punto in cui si trovano. Non è facile, ma è necessario. Non basta dire no, bisogna indicare quel che arricchisce in termini di valori umani ed esistenziali. Un aiuto in questo lavoro educativo può essere il sito Orientaserie. it, che nasce proprio dall’esperienza dell’Aiart e del Master che dirigo all’Università Cattolica, con la partnership di Corecom Lombardia».

Pirrone: «Educare ai tempi delle serie tv è davvero difficile. La scelta vincente delle piattaforme che le diffondono in gran numero è proprio quella di creare una dipendenza assoluta anche grazie a un accesso semplicissimo, difficilmente controllabile, e a formule di abbonamento che permettono la condivisione dei contenuti senza che il titolare debba essere maggiorenne. Il problema è l’accesso dallo smartphone e il confronto con il gruppo dei pari senza l’intermediazione degli adulti. Credo sia fondamentale guardare le serie tv con occhi critici, senza farsi prendere dalla bramosia della curiosità ed evitando la trappola dell’aspettativa per la puntata successiva. Bisogna educare a darsi dei tempi, a vedere non più di una puntata di serie tv al giorno... Mi chiedo: riusciamo a crescere questi ragazzi in un rapporto libero, equilibrato e di buon senso, senza dipendenze? Noi adulti siamo capaci di uno sguardo critico perché chiamati a educare, cioè a dare valore e senso alla vita?».

Fagioli: «Il bello e il buono funzionano sempre, e scacciano la moneta cattiva. Un caso esemplare è Don Matteo, serie di successo che viene vista da tutte le fasce di età. Certo, ci muoviamo in una situazione complicata: i ragazzini hanno genitori tra i 30 e i 40 anni, generazioni già modellate dalla cultura di massa. Cosa serve, allora? L’educazione all’immagine, cara al mio maestro padre Nazareno Taddei. Oggi questo significa educare a muoversi tra tutti i media e i linguaggi, anche social e serie tv. Perché saper 'leggere' rende liberi».