Agorà

Calcio e pace. Cusin in Sud Sudan, il mister nomade

Massimiliano Castellani venerdì 1 ottobre 2021

Stefano Cusin, che sarà il ct del Sud Sudan fino al 2023 con il n.1 della federcalcio Augustino Maduot Parek

Gira il mondo gira, nello spazio senza fine...». Già, potrebbe essere Il mondo di Jimmy Fontana la colonna sonora di una vita da allenatore errante come quella di Stefano Cusin. Faccia da vita spericolata alla Vasco Rossi, dopo una carriera da calciatore votato all’attacco, trascorsa per lo più in Francia e Svizzera, con gran finale a Guadalupa, questo 52enne, nato in Canada, a Montreal – «papà veneziano e mamma di Bari» – è tornato alle origini nel 1991, sposando Susi, una ragazza di Castiglion Fiorentino (Arezzo) «il paese della nonna » e cercando di realizzarsi come allenatore in Italia. Gavetta nelle giovanili dell’Arezzo e del Montevarchi, prima di disegnare una mappa ricercatissima, fatta di panchine estreme. Forse solo il mister “nomade” Bora Milutinovic può competere con Cusin e sfoggiare incarichi come quelli da ct di Cina, Honduras, Giamaica e Iraq. Mete non ancora toccate dal nostro eroe che comunque non esclude altre rotte asiatiche, «Giappone e Corea, ma anche Sudamerica e Usa sono nei miei pensieri».

Intanto sfidiamo a trovare un tecnico di calcio in circolazione che possa vantare un curriculum più esotico del suo girovagare iniziato quasi vent’anni fa con l’Under 20 del Camerun e proseguito nella nazionale del Congo e poi nei club di Libia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Sud Africa, Cipro e Iran. In mezzo ci sarebbe anche un’esperienza in Bulgaria, al Botev Plovdiv e in Inghilterra, come vice di Walter Zenga, al Wolverhampton. Ma queste due tappe europee, sia pure importanti per la sua crescita professionale “sciupano” un po’ il quadro unico appena tracciato che adesso si arricchisce della scelta più estrema fatta sin qui da Cusin: ha firmato un biennale da ct del Sud Sudan. Un’offerta che gli è stata recapitata direttamente da Augustino Maduot Parek, il presidente della federcalcio sudsudanese («un generale dell’esercito, persona splendida e molto competente di calcio») e che il mister italiano ha accettato con il consueto entusiasmo che lo contraddistingue. «È un incarico fantastico, nel paese più nuovo che ci sia, con la nazionale più giovane presente nel panorama mondiale».

La selezione di calcio del Sud Sudan è infatti l’ultima creatura entrata a far parte della grande famiglia allargata della Fifa. Una selezione nata nel 2010 dopo la proclamazione d’indipendenza del paese centroafricano dal Sudan. Il battesimo del Sud Sudan in campo è avvenuto il 10 luglio 2012 nella capitale Giuba, partita amichevole più volte rinviata e finalmente disputata contro l’Uganda finita con un serafico pari, 2-2. Nella polveriera sudsudanese, dove gli scontri tra le fazioni dei fedelissimi all’ex vicepresidente Riek Machar minano la tregua portata dal presidente Salva Kiir, che ha posto fine a cinque anni fratricida guerra civile, il calcio rappresenta un’oasi di pace e di serenità ritrovata. Cusin è appena atterrato a Giuba con le idee chiare sul processo di normalizzazione e di rinascita, anche attraverso il calcio. «Non temo nulla, anzi. Io sono una persona fortunata per il fatto che mi viene offerta l’ennesima possibilità di veder crescere una squadra in un paese culturalmente distante dal nostro, da cui imparare e condividere conoscenze ed emozioni non solo sportive». La giornata tipo del ct Cusin comincia al mattino presto con gli allenamenti che terminano al tramonto. Per arrivare al campo attraversa Giuba che, da villaggio, sta diventando una piccola metropoli di oltre mezzo milione di abitanti. «Giuba è tutta un cantiere con almeno dieci progetti avviati di strade e alberghi a cinque stelle e un nuovo stadio da 10mila posti – per cominciare poi arriverà a 30mila – che verrà inaugurato a gennaio 2022». Qua il vero problema al momento è proprio la carenza di impianti sportivi. «Il campionato nazionale che coinvolge le squadre dei 17 stati – spiega Cusin – si svolge in pratica su due campi e noi ci alleniamo in uno di questi tra una partita e l’altra della serie A e della B».

Piccoli inconvenienti che non frenano certo l’ottimismo del ct. «Sono qua da tre giorni e tutti mi hanno accolto in modo fantastico. Sinceramente non mi aspettavo un’organizzazione così professionale da parte della federazione. La qualità tecnica dei giocatori? Pensavo peggio, c’è un buon mix di ragazzi nati e cresciuti calcisticamente in casa – età media 22 anni, tranne il portiere che ne ha 34 – e altri di ritorno da esperienze avute in Uganda e in Kenya. Stanno per arrivare due nazionali che militano nella B della Repubblica Ceca e uno che è tesserato con l’Atlanta nella Msl americana, gente che alza il tasso tecnico della squadra – continua Cusin – . Prima però c’è da riformare il campionato. Mi hanno chiesto di creare assieme ai dirigenti un torneo da almeno 34 partite a stagione. Dalla prossima settimana girerò tutti i 17 stati del paese alla ricerca di altri talenti da inserire in questa rosa che ha un obiettivo: partecipare per la prima volta alla Coppa d’Africa». Un cammino avviato con i suoi ragazzi con i quali sta preparando il quadrangolare di ottobre organizzato in Marocco e a cui prenderanno parte anche le selezioni di Gambia e Sierra Leone. Cusin è consapevole che non mancheranno le difficoltà, in campo e fuori, ma è allenato davvero a tutto. Da un campo di calcio ha già sentito spirare a un passo dal bavero della sua tuta i peggiori venti di guerra del infinito conflitto israeliano- palestinese.

Nel 2015 è stato il primo allenatore italiano ad aver guidato una compagine palestinese: l’Ahli Al-Khalil di Hebron, esperienza che considera uno dei suoi piccoli capolavori. «Arrivai a Hebron a gennaio, la squadra era terzultima, dovevamo solo salvarci. Invece, in meno di dieci mesi abbiamo vinto tutto: Coppa di Lega, Coppa e Supercoppa Nazionale, più la Supercoppa West Bank contro i campioni di Gaza... Un match che definirei epico: per ragioni politiche non si disputava da quindici anni». Palestina nel cuore per Cusin che ricorda: «Non c’è stato uno stadio in in cui i tifosi avversari non mi abbiano accolto con dei cori di benvenuto. Per loro, che io fossi lì rappresentava una vittoria per tutta la Palestina e non solo per il mio club». In quella terra che definisce «la più spirituale che conosco» è tornato una seconda volta, nel 2018, dopo aver salutato l’amico Walter Zenga, con il quale ha avuto una lunga e proficua esperienza da vice. Un sodalizio iniziato per caso dopo l’amichevole ad Assisi tra il suo Botev Plovdiv e l’Al-Ain, formazione degli Emirati Arabi allora guidata dall’Uomo Ragno. «Walter si ricordò di me e mi ha chiamato a lavorare con lui all’Al-Jazira, all’Al Nasr Dubai e infine ai Wolverhampton ». Tu chiamale se vuoi emozioni. «Ecco se ripenso a una delle partite più belle ed emozionanti viste in carriera mi viene in mente questa : il Newcastle di Rafa Benitez poi promosso in Premier League a fine stagione contro i “nostri” Wolves… 54mila tifosi bianconeri contro i 5mila dei nostri in uno spicchio di stadio. Partita giocata benissimo e vinta tatticamente ma non solo. Ero lì al fianco di Zenga che quel giorno in panchina era stranamente calmo, sentiva già dalla vigilia prima il profumo dell’impresa».

Quella con il Wolverhampton è anche la stagione in cui finalmente Cusin ha conseguito la licenza Uefa che gli ha permesso di diventare allenatore professionista di prima categoria. Patentino che ha inaugurato alla guida dei Black Leopards, formazione neopromossa nella massima serie sudafricana. Instancabile ha poi riattraversato l’Oceano fino al Mediterraneo per allenare i cirprioti dell’Ermis Aradippou e sotto lockdown pur di non fermarsi ha proseguito in Iran, allo Shahr Khodro, ultimo approdo prima dell’avventura in Sud Sudan. «Non conta il luogo, a me piace allenare, questo è il mio lavoro. Viaggiare, conoscere confrontarsi con altre culture è il mio credo che va di pari passo con l’eterna passione per il calcio». Come un pallone la vita del ct rimbalza da un continente all’altro, e prima o poi si riapriranno anche le porte di qualche società italiana. «Mi piacerebbe, i miei figli Mirko (24 anni) e il piccolo Marko (2 anni) stanno vivendo in Italia, ma da noi è molto difficile ritagliarsi uno spazio importante se non sei stato un giocatore di Serie A o se non sei appoggiato da procuratore talmente potente da spostare gli equilibri in seno a un club... Poi per carità, ci sono le eccezioni, come Italiano alla Fiorentina che arriva dai dilettanti e da due anni (prima a Spezia) dimostra di saperci fare anche nella massima serie. Stimo Zenga, ma il mio modello di allenatore resta Zeman, per quello che dice per la coerenza con cui vive da sempre il calcio e per il suo grande rispetto verso le regole e la ricerca assoluta del bel gioco. Magari è un perdente, come il sottoscritto, ma perdere mantenendo sempre fede ai propri ideali e coltivando i propri sogni lo considero comunque un successo nel calcio, come nella vita».